Che avremmo visto una risposta iraniana all’attacco israeliano al consolato di Teheran in Siria era un segreto di Pulcinella. Quel che rimane incerto è il seguito. Per giorni gli iraniani, dalla Guida suprema Ali Khamenei in giù, lo avevano detto e ridetto. Come scritto su queste pagine all’indomani dell’attacco israeliano che uccise sette guardie rivoluzionarie della Repubblica islamica a Damasco, una risposta iraniana era quasi scontata. La domanda non ruotava, insomma, attorno al se, ma semmai al quando e al come sarebbe arrivata una risposta di Teheran. Perché, in effetti, la via era stretta.
Da un lato l’Iran vuole evitare una guerra regionale. Fino ad ora, il Paese è tra i vincitori della guerra a Gaza, e non ha interesse a vedere l’escalation trasformarsi in una guerra regionale vera e propria (ossia una guerra tra Stati), dalla quale perderebbero tutti, Iran incluso. Parte del successo iraniano sta nel modo in cui Teheran è riuscita a capitalizzare politicamente sul disprezzo che c’è nella regione (e non solo) nei confronti di Israele, alla luce degli eccessi dell’invasione di Gaza. L’Iran ha usato la guerra nella Striscia per migliorare sensibilmente le proprie relazioni con i Paesi arabi, da sempre tese, a partire da quelle con l’Arabia Saudita. Paradossalmente, c’era proprio questo miglioramento a limitare le opzioni a disposizione dell’Iran. Teheran avrebbe potuto ristabilire la propria deterrenza rispondendo simmetricamente a Israele, colpendo una sua sede nella regione, dal Bahrain agli Emirati Arabi Uniti, dalla Giordania all’Egitto. Ma ciò avrebbe complicato le relazioni con questi Paesi arabi, che l’Iran ha coltivato negli ultimi mesi. Avrebbe potuto ingaggiare di più Hezbollah, ma sa che il Libano scongiura una guerra e che un attacco della milizia filo-iraniana libanese che superi l’impercettibile linea rossa che vige sul fronte nord sarebbe stato ancora meno controllabile di un proprio intervento diretto. Questo lasciava come unica via per ristabilire la deterrenza, considerata necessaria a Teheran, un attacco dal proprio suolo diretto contro Israele, senza tuttavia far precipitare il Medio Oriente in una guerra regionale. Insomma un dilemma non da poco.
Per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, Teheran ha attaccato Israele con centinaia di droni e missili, ma ha reso l’attacco plateale e prevedibile, dando quindi a Israele, avvertita anche dagli Stati Uniti nelle ore precedenti all’attacco della notte tra sabato e domenica, tutto il tempo per preparare la propria difesa aerea. Difatti Israele, con il supporto di Stati Uniti, Regno Unito e Francia, ha intercettato e abbattuto la stragrande maggioranza dei droni e dei missili iraniani. L’Iran ha poi subito dichiarato che considera chiusa la faccenda, fermo restando che non ci sia un ulteriore attacco israeliano (o statunitense) nei propri confronti. Insomma, pari e patta, chiudiamola qui.
Francamente non è stata una mossa geniale: un attacco così massiccio ha suscitato una condanna pressoché universale nei confronti dell’Iran e declassato Gaza nei dispacci della diplomazia internazionale. Ha pure spazzato via l’idea – per quanto ancora ipotetica – di sospendere o di condizionare gli aiuti militari occidentali a Israele, in un contesto di pressione aumentata dopo l’attacco israeliano al convoglio umanitario del World Food Kitchen, la minaccia imminente di un’invasione di Rafah e la carestia divampante nella Striscia. Per giunta, l’attacco iraniano non ha ristabilito granché la deterrenza della Repubblica islamica, visto che quasi tutti i droni e i missili diretti verso Israele sono stati intercettati.
Probabilmente l’Iran avrebbe tratto più beneficio lasciando Israele sulle spine per più tempo e/o optando per una risposta meno telegrafata, massiccia e coreografica. Politicamente, poi, avrebbe giovato molto più a Teheran e all’intero Medio Oriente mantenere uno stretto collegamento tra la reazione al raid di Damasco e la guerra a Gaza, con una pressione crescente per un cessate il fuoco nella Striscia. Il sostegno per l’Iran tra i governi (non le opinioni pubbliche) della regione è, infatti, calato dopo l’attacco della notte tra sabato e domenica, durante il quale anche la contraerea giordana ha contribuito a sostegno di Israele. Gli Stati Uniti, così come tutti i Paesi del G7 e il segretario generale dell’Onu António Guterres, hanno prevedibilmente e giustamente condannato l’attacco iraniano. L’Ucraina, che vive quotidianamente offensive di questo genere da parte della Russia, non ha né il lusso di una difesa aerea come quella israeliana né beneficia della stessa protezione del proprio spazio aereo che, invece, Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno garantito a Israele. Il confronto è tragico.
Il presidente americano Joe Biden, riaffermando l’impegno incondizionato alla difesa di Israele, ha però aggiunto che gli Usa non parteciperanno a operazioni “offensive” contro l’Iran. Anche Washington, come Teheran, scongiura una guerra regionale, sebbene abbia dato carta bianca a Israele nella guerra a Gaza e non abbia definito ciò che costituisce un attacco offensivo ed uno difensivo che, come noto, è opinabile. Se Israele non risponde, la questione può considerarsi chiusa, per il momento. Chiusa per modo di dire, naturalmente. Non solo non esiste alcuna possibilità per una reale riconciliazione nella regione in questo momento, ma, soprattutto, la minaccia di una guerra regionale non può essere accantonata finché andrà avanti la guerra a Gaza. E la guerra a Gaza andrà avanti. Tragicamente l’attacco iraniano, distogliendo l’attenzione dalla catastrofe umanitaria nella Striscia, rischia pure di averla prolungata. Da questo punto di vista, Teheran ha fatto il gioco di Tel Aviv.
L’unico vero dubbio rimane il calcolo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Fino ad oggi Israele si è concentrata sull’invasione di Gaza, pur segnalando chiaramente di voler ribaltare lo scenario strategico nel nord del Paese, mantenendo viva la minaccia di una guerra contro Hezbollah in Libano.
Fino ad oggi Netanyahu ha dimostrato di dare zero retta ai consigli paterni e agli schiaffetti sulle mani di Biden riguardo Gaza, mentre non è chiaro se a dissuadere Israele in Libano sia stata più Washington oppure l’oggettiva difficoltà di aprire un secondo fronte a nord mentre Israele rimane impelagata in quello a sud. Fonti di Washington hanno più volte suggerito il sospetto ed il timore che Israele voglia trascinare gli Stati Uniti in una guerra in Medio Oriente. Uno scontro diretto tra Israele e Iran garantirebbe, infatti, un’entrata in gioco degli Stati Uniti. L’unica cosa chiara è che Netanyahu pare avere più a cuore la propria sopravvivenza politica che la sicurezza del Paese da lui guidato, figuriamoci la pace in Medio Oriente. E questo non è di buon auspicio.