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10 Maggio 2024L’intervista I ricordi di Cochi Ponzoni, ospite (senza Renato) al festival sull’umorismo di Livorno«Con Pozzetto e Fo nel sottoscala per due lire. In macchina con Fontana, ma non accettai i suoi quadri»
Cochi senza Renato, ovvero Aurelio Ponzoni. Milanese, un nonno poeta dialettale e sette zii che hanno preso i voti. Con «gli occhi da clown triste ma pronto a bacchettare» per citare Moni Ovadia, impara da Gaber a suonare la chitarra. Insieme a Pozzetto si esibisce al «Cab 64» e poi sale sul palco del «Derby» di Milano dove insegna una comicità unica, creativa e surreale, fatta di poetica semplicità.
Ne parlerà a Livorno durante «Antani. Comicità e satira come se fosse», il primo festival sull’umorismo in Italia con la direzione artistica di Luca Bottura in programma dal 24 al 26 maggio. Due gli appuntamenti che lo vedranno coinvolto: venerdì (dalle 20.30) con «Il momento più meneghino che ci sia» insieme a Paolo Maggioni, Marina Viola e Luca Bottura per ripensare alla Milano che fu. E sabato (dalle 17.30) per la presentazione del suo libro La versione di Cochi (Baldini + Castoldi).
Una zia missionaria in India, Sister Judith, che cacciava nella giungla e ha fondato un ospedale a Meethapur…
«E uno zio sacerdote che nel 1930 ha scritto un libro su tutte le chiese di Milano. Il nome Aurelio me l’ha messo lui. Insieme a Felice, Arturo e Benvenuto, perché sono arrivato maschio dopo due femmine. Fu invece mia madre a ribattezzarmi Cochi, un personaggio buffo del Corriere dei Piccoli ».
Com’era la sua Milano?
«Nel periodo del dopoguerra c’era un gran fermento artistico, un concentrato di voglia di vita. L’ho assorbito inconsapevolmente, da ragazzino, quando iniziavo a frequentare le osterie dove si ritrovavano pittori, scrittori, attori, gente di teatro. Di fronte a un bicchiere di vino, si discuteva con gli intellettuali, alle volte litigando pure. Ma sempre con grande solidarietà. Con Toffolo, Andreasi, Lauzi, avevamo fatto una cooperativa. Dividevamo i magri incassi della serata fatta in un sottoscala da 50 posti».
Chi erano questi intellettuali?
«Manzoni, Fontana, Fo. Tra canzoni popolari e anarchiche, quell’aria che ho avuto la fortuna di respirare con Renato, mi ha dato molti input nello scegliere direzioni anche sconosciute. Ho trovato il coraggio nel seguire i miei sogni. Buzzati veniva a vederci e ordinava Don Perignon per darci una mano, cercava di far salire le entrate della serata».
E Fontana?
«Lo accompagnavo a casa tutte le sere perché non guidava. Parlava in dialetto milanese: “Dai, sali che ti do un quadro”. Non ho mai accettato. Ero un ragazzino, mi sembrava di approfittarne. Però che soddisfazione andare al Metropolitan e dire che era mio amico. Come lo era Piero Manzoni. L’abbiamo aiutato a realizzare una sua opera, Linea lunga 11 km . Aveva bisogno che qualcuno gli tenesse il pennarello mentre srotolava il nastro. Così gli abbiamo dato una mano».
Durante il festival livornese ci sarà un momento dedicato a Enzo Jannacci, che nel suo libro ricorda con affetto.
«Un fratello maggiore, geniale e matto come un cavallo. Gli devo molto, e per me non se n’è mai andato. Gli sketch e le canzoni nascevano per caso, partendo da una parola, un’idea e taac! Abbiamo vissuto insieme per quasi dieci anni: è stato un maestro di vita».
Con Pozzetto vi conoscevate da prima di venire al mondo, se così si può dire.
«I nostri genitori erano amici, abbiamo passato l’infanzia insieme. Suonavamo, cantavamo, inventavamo versi con un linguaggio nostro. Per tutta la vita abbiamo giocato con parole e note, come la domenica all’oratorio».
Le piaceva cantare canzoni popolari?
«Anche straniere, ho sempre avuto la mania delle lingue. Il mio primo lavoro è stato quello di Check-in Counter all’aeroporto di Linate, ci sono rimasto per due anni, pur continuando a frequentare il mondo dello spettacolo».
La scrittura l’aveva già frequentata?
«In un diario privato, pensando poi di darlo alle mie quattro figlie. La pubblicazione non è stata un’idea mia, il giornalista Paolo Crespi mi ha convinto. Partendo da un’intervista ha fatto una sorta di scalettatura della mia esistenza, con aneddoti e ricordi».
La sua carriera inizia con Lattuada.
«Avevo letto Cuore di Cane di Bulgakov, me l’aveva consigliato Villaggio. Quando mi chiamò Lattuada, offrendomi la parte di Poligraf, accettai senza esitare, anche perché il protagonista era Max von Sydow, famoso per L’esorcista e I tre giorni del condor . Intanto Renato era impegnato nel suo primo film Per amare Ofelia . Come dire, ci siamo separati dolcemente».
È cambiato il pubblico rispetto a ieri?
«È sempre lo stesso. Son cambiati i tempi, i linguaggi, i mezzi di comunicazione. Siamo distratti, ma la gente risponde sempre agli stimoli genuini e positivi. Anni addietro si osava molto, non avevamo filtri o paura d’essere noi stessi, come ci avevano insegnato i nostri amici pittori. Raccontavamo storie strampalate senza una logica apparente, ma un po’ clandestina. Canzone intelligente , La gallina , E la vita, la vita avevano un risvolto che parlava di noi, del nostro modo di esprimerci. Erano la sintesi di quell’idea di fare spettacolo, di cabaret, che ben ci sapeva rappresentare».
Ci saluta con un ricordo toscano?
«Ripenso con affetto alle riprese de Il Marchese del Grillo , girato con Sordi a Lucca. E poi a Siena con Renato per uno spettacolo. Stavamo cenando nella Contrada dell’Oca con Benvenuti, Nuti e la Cenci dei Giancattivi, quando Athina mi fece uno scherzo tremendo».
Ovvero?
«Disse: “Vai Cochi, adesso alzati in piedi e urla: Viva l’Onda che è grande e profonda!”. Non conoscendo bene lo spirito e la rivalità tra le varie contrade, lo feci. Mi volevano menare, non ricordo di aver mai corso tanto veloce in via mia».
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