La candidata del Ppe arriva a Roma per l’inaugurazione della campagna elettorale del braccio italiano del Ppe, Forza Italia, ma alla manifestazione è assente. Pranza con Tajani, incontra i giovani forzisti della Fondazione De Gasperi, si finge soddisfattissima però l’impegno principale salta. «La sua partecipazione non era prevista», fanno sapere dal quartier generale azzurro: giustificazione diplomatica tra le più goffe. È vero che un’agenda ufficiale non c’era, ma è anche vero che la partecipazione della presidente alla partenza della campagna azzurra era data per scontata. Il ripensamento è arrivato in extremis.

La motivazione della clamorosa defezione è doppia. In parte Fi, che sente di avere il vento in poppa e punta su queste elezioni europee per scalzare la Lega dalla postazione di secondo partito della coalizione, considerava la testimonial controproducente. Poco popolare. Poco amata dagli italiani. Sbandierare la sua candidatura rischiava di fare più danno che altro. Ma questo è ancora il meno. La spina acuminata è che all’interno di Fi come di tutto il Ppe la sua candidatura è fieramente contrastata, e lo si era capito da subito, già dall’investitura piena di defezioni: appena 400 voti su 737 aventi diritto. A ufficializzare i dubbi era stata alla vigilia Licia Ronzulli: «È un cavallo azzoppato». Ieri ha ribadito: «Dico quello che vedo e fatico a vedere il Consiglio unito sul suo nome». Mulè, ieri, è stato appena più diplomatico: «Sono parzialmente d’accordo sulla necessità di riflettere se sia il candidato che mette d’accordo tutti». Il capogruppo Barelli prova negare l’evidenza: «È stata scelta dal Ppe e sul suo nome non c’è nessuna spaccatura». Nulla di più falso. Lo stesso Tajani si mostra a dir poco tiepido: «Il Ppe proporrà al Consiglio il nome di von der Leyen. Poi toccherà al Consiglio decidere, quello è un suggerimento».

LA REALTÀ È CHE L’OSTACOLO sul percorso della presidente è proprio il Ppe. Un po’ per i giochi di potere all’interno di quello che sarà confermato come il primo partito nel Parlamento europeo. Un po’ perché il suo mandato è stato considerato, anche se nessuno lo ammetterebbe, come troppo schiacciato sui diktat di Washington. Ma in parte anche perché la presidente è troppo vicina a una parte della destra europea: quella parte che sfoggia le fattezze della premier italiana. A Roma von der Leyen non ha incontrato neppure Meloni ma questo era davvero previsto sin dall’inizio e non avrebbe potuto essere diversamente. L’alleanza è solida, basata com’è sulla convenienza reciproca. Però non può essere ostentata: sarebbe un danno per entrambe. Per Meloni, che deve tenere l’accordo in sordina tanto più con Salvini che bersaglia la presidente uscente un giorno sì e l’altro pure. Per von der Leyen, che non può figurare troppo apertamente come il perno di un’alleanza tra il Ppe e la destra che va tenuta sotto traccia fino al 10 giugno. È evidente che a una parte del Ppe quella svolta non piace affatto e in fondo proprio Ronzulli e Mulè incarnano l’anima forzista meno disposta ad appiattirsi troppo sulle posizioni di FdI.

Quello spostamento a destra del Ppe però ha fatto negli ultimi mesi e anche negli ultimi giorni passi da gigante. La settimana scorsa l’incontro del leader della Csu bavarese Markus Soeder a Roma con la premier italiana è stato visto, a ragione, come la resa finale a quella svolta. Un anno fa la linea di Soeder era: «Mai con i postfascisti». Qualche giorno fa magnificava i rapporti tra la Baviera e il governo italiano.

I GIOCHI DI POTERE incrociati tra i gruppi europei da un lato e i vari Stati dall’altro agevolano il cammino sia della presidente e candidata che dello slittamento a destra. I popolari non transigono sul reclamare la guida della Commissione. I tedeschi non intendono cedere il passo a una presidenza di altra nazionalità. Non è che di candidati alternativi a von der Leyen, con questi paletti, ce ne siano molti. Al momento non ce n’è anzi nemmeno uno. Resta la possibilità di un accordo tra Francia e Germania quando il Consiglio europeo dovrà scegliere il presidente per poi chiedere la ratifica al Parlamento europeo. Si sa che né a Macron né a Scholtz l’idea di un secondo mandato von der Leyen piace. Ma le possibilità che, in caso di avanzata travolgente della destra ovunque, sbarrino davvero la strada a Ursula e Giorgia sono davvero remote.