Il ricordo di Matteotti, custodito dai fuorusciti e rinato nelle formazioni partigiane, restava nel dopoguerra sempre vivo, come ha scritto Ennio Di Nolfo, «nel cuore della gente più umile, ma anche in quelli degli intellettuali e dei piccolo-borghesi, i quali vedevano nel volto scavato del martire socialista […] una sorta di santo laico, capace di evocare con la propria immagine un mondo intero di idee, un avvenire più giusto e più felice». Viali, strade, ponti e piazze gli furono dedicati (con 3.992 intitolazioni è il politico italiano del Novecento più presente nella toponomastica), insieme a scuole (ma solo quelle elementari forse per evitare riflessioni e approfondimenti sul fascismo), giardini, colonie per l’infanzia, abitazioni popolari e cooperative in ogni parte d’Italia. Un fattore che contribuì sensibilmente all’affermazione del Partito socialista come primo partito della sinistra alle elezioni del 1946 per la Costituente quando anche i due giovanissimi figli di Matteotti furono eletti deputati «per il richiamo di un retaggio familiare, di un nome inciso nella storia della lotta al fascismo».
Gianpasquale Santomassimo, riferendosi a Giacomo Matteotti ha titolato anni fa un suo articolo Un politico senza «fortuna». Se dovessi a mia volta definire in due parole la figura di Matteotti utilizzerei i termini fortuna e sfortuna, solo apparentemente antinomici, o più sinteticamente con l’espressione francese le mal-aimé. Pochi uomini politici hanno infatti saputo ispirare intere generazioni e suscitare echi così profondi e duraturi, anche all’estero, come Matteotti, ma pochi sono stati al tempo stesso glorificati e meno conosciuti.
Tre a mio avviso i fattori che, in diversa misura, hanno determinato questo singolare e prolungato silenzio sulla sua vita e sui suoi scritti: il mito che ha soverchiato l’uomo; le caratteristiche altamente drammatiche del delitto; la progressiva radicalizzazione delle lotte della sinistra nei primi anni del dopoguerra quando, come ha sottolineato Gaetano Arfè, la tradizione riformista fu «trascurata, sottovalutata, criticata, e a volte calunniata» come sistematica tendenza alla capitolazione. Per il Partito comunista Matteotti, pur nel riconoscimento dell’esemplarità del suo «sacrificio», restava, secondo la definizione gramsciana, un «pellegrino del nulla», uno sconfitto. Un giudizio ripreso nel 1927 anche da Luigi Longo: «La sua morte […] è tanto più tragica perché segnò il fallimento della sua concezione, del suo partito, del suo metodo».
Ancora negli anni 70 due dirigenti, pur così diversi, come Pietro Secchia e Giorgio Amendola, si trovarono concordi in un’opinione assai critica nei riguardi di Matteotti: «Né si può dimenticare che i dirigenti del Partito socialista, Matteotti compreso, predicavano la rassegnazione, la non resistenza, il “coraggio di essere vili”»; «Matteotti giunge a proclamare l’eroismo del silenzio e della “viltà”. Tre anni dopo egli dovrà pagare, col sacrificio della vita, i consigli di “viltà” dati ai lavoratori quando era ancora possibile organizzare la resistenza ed il contrattacco».
Nonostante le critiche dei comunisti e le lacerazioni nel campo socialista il mito di Matteotti era profondamente radicato. Nasce subito all’indomani dell’assassinio, quando l’immaginario popolare attribuì a Matteotti morente le parole: «Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai. I miei figli si glorieranno del loro padre. Gli italiani benediranno il mio cadavere. Viva il socialismo!». Giuseppe Saragat a chi giustamente sosteneva che sotto i colpi di pugnale Matteotti non fosse in grado di pronunciare quella frase, con una retorica oltre tutto estranea al suo costume, così replicava: «Ricordati […] ciò che scrisse il grande Mommsen sulle frasi attribuite ai grandi personaggi della storia di Roma antica; e cioè che, anche se quelle frasi lapidarie non fossero state pronunciate nei termini riportati dalla tradizione, rimane il fatto incontrovertibile che quelle loro parole hanno inciso nel corso della storia perché hanno orientato le coscienze dei posteri e quindi le loro azioni». Il mito matteottiano conobbe, come si è detto, una straordinaria diffusione anche nel resto del mondo. Recentemente, nel maggio del 2021, è stato inaugurato a Béziers un busto in bronzo di Matteotti nella piazza che ricorda gli eroi della Resistenza francese. Certo ha nuociuto in qualche modo alla comprensione della complessa personalità di Matteotti, e della sua assidua militanza socialista, il prevalere dell’aurea mitica, e quindi astratta, sulla figura concreta dell’uomo «storico». Una sublimazione ideale che ha puntato quasi esclusivamente sul «martire», sulla «vittima», sull’«apostolo», sull’«eroe», sfumando così i tratti veri del personaggio, favorendone la metamorfosi in un simbolo sostanzialmente etico e sacrificandone invece lo spessore umano e la portata storica della sua opera. (…) È indicativo dei ritardi e della scarsa considerazione dell’editoria e della storiografia nei confronti di Matteotti, che la ristampa di un suo testo (Un anno di dominazione fascista) sia stata realizzata nel 1969 all’estero e che il primo convegno di studi sulla sua figura sia stato organizzato a New York nel 1975, grazie al generoso finanziamento dei sindacati italo-americani. Anche i primi documentari televisivi sono stati prodotti dalla rete inglese nel 1974 e da quella svizzera nel 1977, mentre la Rai attese il 28 novembre 1985 per mettere in onda Matteotti vivo di Raffaele Uboldi.
A rendere giustizia alla figura di Matteotti intervenne nel 1970 Sandro Pertini, promuovendo, nella sua veste di presidente della Camera, la pubblicazione di tutti i suoi discorsi parlamentari. Va sottolineato, a questo proposito, che Pertini si iscrive al Partito socialista unitario nel giugno 1924, all’indomani del sequestro di Matteotti, mentre a Firenze completava i suoi studi per una seconda laurea («La sacra data» scrive al segretario della Federazione di Savona «suonerà sempre per me ammonimento e comando»). Nel 1925 viene arrestato e processato per la diffusione di un foglio clandestino sull’assassinio di Matteotti e nel giugno dello stesso anno viene percosso dai fascisti per aver deposto una corona con la scritta «Gloria a Matteotti».
Esule in Francia, installa una radiotrasmittente intitolandola al suo nome («Il ritratto del martire» confida a Turati «sta al di sopra dell’apparecchio, quasi a proteggerlo»). Ed è il primo a commemorarlo a Rovigo il 10 giugno 1945 accanto a Giancarlo Matteotti. Anche in seguito, a differenza di altri dirigenti socialisti, continuerà a considerare Matteotti un punto di riferimento imprescindibile, al pari di Filippo Turati. Infine l’8 giugno 1985, alla scadenza del mandato presidenziale, presenziò in Campidoglio la manifestazione per il centenario della nascita di Matteotti. Ideale conclusione di un intero percorso politico all’insegna del «maestro» di vita.