L’artista fiammingo, star dell’arte concettuale firma l’ultimo capitolo di “Carte Blanche” con cui il MAH di Ginevra si reinventadiLara Crinò
L’accumulo. La metafora. L’accostamento insolito di materie e forme eterogenee, e una sorta di ossessione per la torsione dei corpi. Sono le cifre ricorrenti del Barocco ma anche dell’opera del fiammingo Wim Delvoye, per cui la categoria di artista “ concettuale”, sebbene non tradisca i suoi padri nobili ( Duchamp prima di tutti) è certo riduttiva. Creatore “ scandaloso”, se ancora qualcosa può far scandalo nell’arte, di installazioni come la serieCloaca dei primi anni Duemila, formata da macchine che ricreavano il processo digestivo umano, ma anche collezionista vorace e attento di Old Masters, accumulatore, ironica mente pensante del contemporaneo, il 59enne Delvoye è l’artista a cui il MAH con il suo direttore Marc- Olivier Wahler ha affidato il compito di portare a conclusione il pluriennale Carte Blanche.
Si tratta del progetto che ha rivoluzionato stanze e immagine del Musée d’art et d’histoire, veneranda istituzione ginevrina diventata a sorpresa laboratorio di invenzioni, per volontà di Wahler, tornato in patria dopo una prestigiosa carriera curatoriale e direttoriale ( tra l’altro, del parigino Palais de Tokyo). L’intera collezione, archivio incluso, dell’ottocentesco ed enciclopedico museo che sovrasta la città svizzera è stata negli ultimi anni affidata a quattro nomi della scena contemporanea affinché in piena autonomia la rinterpretassero, offrendo al pubblico una nuova visione del noto ( i pezzi esposti) e soprattutto dell’ignoto ( la messe di oggetti di ogni tipo conservati nei magazzini) in modo tale da offrirne nuove chiavi d’interpretazione. Un percorso che, da Jacob Lena Knebl (Walk on the Water) a Jean- Hubert Martin (Draw Your Own Conclusion) a Ugo Rondinone (When the Sun Goes Up and the Moon Goes Down)
conduce in linea non retta fino a quest’ultimo esperimento artistico curatoriale che Delvoye ha voluto chiamare, con un titolo che può funzionare non solo per il suo lavoro, ma per l’intero progetto,The Order of Things.
Si può partire da qui per capire come ha lavorato Delvoye, che racconta: «Ho studiato i diversi dipartimenti del museo uno ad uno, ho parlato con tutti i conservatori. E li ho stupiti: non si aspettavano che potessi parlare di monete o pittura del XVII secolo, di cui sono un collezionista, e di cui qui, a direil vero, non ci sono pezzi eccelsi. Ma ci sono, quello sì, moltissimi oggetti: dagli orologi ai bottoni, oggetti di uso comune, dimenticati come le persone che si occupano di conservarli. Cerco, riportandoli alla vista, di porre al visitatore delle domande sul valore delle cose, sulla maniera in cui nel corso del tempo sono state stabilite delle gerarchie. Ed ecco perché il nome di questo mio tentativo è The Order of Things, ossia l’ordine delle cose ».
Un ordine non immediato, anzi un disordine apparente, una babele di categorie, epoche, riferimenti che mette a soqquadro la coerenza consueta di bacheche, cornici e piedistalli per rivelare a poco a poco una sua nuova coerenza: « Ho cominciato facendo una sorta di piccola mostra per ogni sala, e solo più tardi mi sono chiesto come tutto si potesse fondere in un’unica narrazione» spiega ancora Delvoye. In mostra (fino al 16 giugno) si mescolano dunque opere e installazioni a sua firma che creano anche un racconto della sua carriera, opere e oggetti che ha scelto e isolato nello sconfinato patrimonio del MAH, e quadri della sua collezione – autentici e falsi – che Delvoye non ha paura di “sacrificare” con buchi e tagli, in un gioco molto più sofisticato dell’apparenteépater la bourgeoisie.
Rimette al centro della scena gli Antonio Canova in possesso del museo ginevrino proponendo una suaBall Track Venus Italica, attraversata da un circuito per le biglie ( realizzato, spiega Delvoye, con un programma ideato insieme al suo team), chiamandoci ad abbandonare la visione frontale della scultura classica. E un circuito per le biglie attraversa, in modo spericolato, irriverente, giocoso, l’enorme sala del pianterreno nell’installazioneLe juste retour des choses:
un sistema di binari d’acciaio che passano sui muri e attraversano riproduzioni picassiane e statue in legno medioevali; il rumore delle biglie che li percorrono distraggono e insieme costringono a ripensare lo spazio museale e i suoi fruitori. « Spero che ciò che ho fatto porti qui qualcuno che nel museo non entrerebbe » dice Delvoye, mentre spiega come gli artigiani che ha conosciuto in Iran siano gli artefici dei meravigliosi intarsi con cui è inciso il metallo delle sue valigie (Rimowa Classic Flight Multiweel) e delle scocche d’auto (La peur du vide) in mostra nella sala delle armature. Il gioco deve intrattenere, ma anche essere bello.