IN MOSTRA A WEIMAR
Manuela Gandini
È il volto inquietante della Bauhaus, la dark zone, la lingua nascosta della scuola, nota come la più innovativa, antinazista e rivoluzionaria del secolo scorso. La recente storiografia, che ne indaga l’evoluzione, svela l’ombra che si è prodotta accanto ai caratteri tipografici-bauhaus, ai personaggi colorati di Oskar Schlemmer, allo spazio spirituale di Vassily Kandinsky e ai palazzi in vetro-cemento. Una triplice mostra, intitolata Bauhaus und National-Sozialismus, riscrive la storia dei rapporti culturali tra la scuola di Walter Gropius e la Germania del Terzo Reich. Inauguratasi a Weimar l’8 maggio scorso – giorno (senza celebrazione) della liberazione dal nazismo – la grande rassegna è curata da Anke Blümm, Elizabeth Otto e Patrick Rössler.
Tutto ritorna dove è cominciato con l’ambiguità che lega la progettualità modernista all’approssimarsi dell’estetica di regime. A Weimar, patria di Goethe e di Schiller, nel 1919 nascono contemporaneamente la democrazia e il Bauhaus. L’economia è frizzante, c’è il primo suffragio universale, voglia di progetto, scoperta e rinascita. La scuola abbatte le barriere disciplinari e di genere, importa pratiche di mesmerismo, inventa il design e concepisce la Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale. Nel 1925 si sposta a Dessau per il venir meno delle sovvenzioni e, da lì, nel 1932, si trasferisce per un anno a Berlino, sino alla chiusura definitiva decretata nel 1933 dal Terzo Reich. Intanto, la Weimar antifascista degli esordi, diventa complice omertosa della Shoà con la costruzione del campo di concentramento di Buchenwald a dieci minuti dalla città.
Considerata da Goebbels espressione del bolscevismo, la Bauhaus – sebbene abbia goduto sino ad ora di una luminosissima fama internazionale grazie a figure come Breuer, Mies Van der Rohe, Albers – non si presta più a una lettura lineare. Su 1253 studenti e 110 docenti, 21 sono stati uccisi nei ghetti o nei lager, alcune centinaia hanno lasciato la Germania, ma la maggior parte è rimasta e molti hanno collaborato alla costruzione della propaganda di governo. La mostra è indigesta e più che mai necessaria. Si articola in tre stazioni con diverse tematiche. La prima è “Il Bauhaus come luogo di competizione politica 1919-1933” al Museum Neues. Qui da subito appaiono chiare le differenze ideologiche nel linguaggio grafico. Scene tradizionali espressioniste, come la Serie dei Nibelunghi del proto-nazista Hans Groß, si contrappongono alle astrazioni progressiste di Karl Peter Röhl, Laszlo Moholy-Nagy, Walter Gropius. A Dessau, già nel 1931, la città è piena di funzionari nazisti a caccia di ebrei e di artisti. Una foto ritrae gli studenti a terra mentre dormono in un nascondiglio di fortuna. Alla caffetteria della scuola, la divisione ideologica è netta: nei tavolini di destra siedono i simpatizzanti del nazismo, a sinistra i filo-comunisti. La tensione è palpabile. Il nazionalsocialismo sta conquistando cuori e potere.
La seconda stazione della mostra è al Bauhaus Museum e racconta le opere “rimosse, confiscate o assimilate” dal governo, tra il 1930 e il 1937. Nella maggior parte dei casi, gli artisti sono perseguitati e non hanno di che vivere. Viene tolto loro lo spazio, il lavoro, l’insegnamento, la dignità. Per esempio Alice Glaser viene uccisa, Willy Jungmittag viene ucciso, Marianne Brandt, progettista di punta, autrice della lampada più venduta in Germania, rimane disoccupata. Il 17 luglio 1937, s’inaugura a Monaco la mostra Entartete Kunst, Arte degenerata, con centinaia di opere requisite dai musei tedeschi ed esposte allo scopo di sputare sulle avanguardie. Il giorno successivo, poco lontano, si apre la GrosseDeutsche Kunstausstellung, la Grande Rassegna di Arte germanica, considerata la vera arte ariana. E qui, tra statue, nudi, retorica e visioni bucoliche, vi sono anche opere di artisti del Bauhaus come Hans Haffenrchter con busti del Fürher e Wilhelm Imkamp, con il ritratto della pianista Elly Ney acquistato dal Führer.
Il buio si infittisce alla terza stazione, la più indigesta, che s’intitola Vivere nella Dittatura, 1933-1945 allo Schiller Museum. Di fronte all’ingresso c’è il modello della porta del campo di Buchenwald con la scritta “Jedem Das Seine”, a ciascuno il suo, leggibile solo dall’interno. Il cancello in ferro battuto fu progettato e realizzato dal bauhauser Franz Ehrlich da internato. «Gli darò quello che vogliono, ma a modo mio», pensò. Le SS gli commissionarono vari progetti, per i quali egli chiedeva la collaborazione di altri detenuti cercando di salvarli. Tra le attività, riprogettò l’appartamento temporaneo del comandante Koch e di sua moglie Ilse, “la strega di Buchenwald”. Ed ecco, infine, la sconcertante figura del bauhauser Fritz Ertl, diventato SS convinto, responsabile della costruzione di Auschwitz, dei crematori e delle baracche di Birkenau.
Sullo sfondo di questo viaggio nel tempo, vediamo Hitler sorridente, in una foto di Hoffmann, seduto in terrazza sulla poltrona simbolo del Bauhaus K46, di Anton Lorenz.