La tornata europea secondo sondaggisti e politologi potrebbe passare alla storia per l’affluenza per la prima volta inferiore al 50 per cento
Alle precedenti consultazioni del 2019 la quota di elettori si era fermata al 54 per cento Ora il timore è quello di un tracollo Le fasce considerate a maggior rischio dagli esperti sono le più deboli e disagiate Cresce il divario tra le aree del Nord e del Sud
MILANO — A modo loro, potrebbero essere delle elezioni storiche. Cioè quelle dove per la prima volta, a livello nazionale, l’astensionismo, cioè il rifiuto a compiere quel che secondo la Costituzione è un “dovere civico”, potrebbe diventare maggioranza assoluta. Il trend del resto parla chiaro ed è inarrestabile: nel 1979, prima volta al voto per il Parlamento europeo, l’affluenza fu dell’85 per cento. Poi si è (quasi) sempre scesi: 82, 81, 73, 69, 71, 66, 57 e infine 54, nel 2019. Un crollo simile a quello visto alle Politiche, dove comunque resiste un po’ più di partecipazione: a partire dalle elezioni del 1979 l’affluenza alle consultazioni per la Camera e il Senato ha subito un progressivo e quasi continuo calo che l’ha portata dal 90 per cento al picco negativo di affluenza nel 2022: 64 per cento. «Oltretutto questa non è una campagna elettorale particolarmente accesa, l’emotività è poca e manca un’idea bandiera attorno alla quale si crea dibattito — ragiona Antonio Noto, direttore di Noto sondaggi — Per questo è indubbio che le probabilità di andare sotto al 50 siano molte ». Va detto che Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) ha fatto divieto agli istituti di ricerca di pubblicare dossier, in questo ultimo periodo senza sondaggi, sul possibile impatto dell’astensionismo, magari suddiviso per fasce di età. Questo nell’ottica di non condizionare il comportamento elettorale, seppur indirettamente. L’astensionismo come profezia che si autoavvera, insomma, perché a furia di dire che voteranno in pochi alla fine succede per davvero. «Ricordo che a fine anni ’90, a inizio della mia carriera — spiega Carlo Buttaroni, sociologo e presidente di Tecnè — avevamo il problema degli “incerti”, quelli che fino all’ultimo mostravano indecisione e poi facevano da ago della bilancia.
Oggi invece la situazione è diversa, il problema è spuntare dai dati coloro che magari ti rispondono e dicono che andranno a votare, sanno anche chi, ma poi non lo fanno. Così adesso la mancanza di motivazione dell’elettore è un fattore dirimente». Se quindi la motivazione è poca, basta un nulla per far desistere il potenziale elettore, che pure magari aveva una sua idea sul da farsi. Un numero indicativo, e oggettivo, è quello dei fuori sede: su più di mezzo milione di studenti che vivono fuori dal proprio comune di residenza, solo 23 mila hanno fatto richiesta per votare in un altro seggio, possibilità offerta dal “decreto elezioni” nel marzo scorso. Gianluca Passarelli, professore di Scienza politica alla Sapienza di Roma, riflette come ormai «la disaffezione colpisca intere fasce della popolazione, che spesso coincidono con quelle più deboli. Un tema del quale i partiti non si stanno facendo carico come avveniva una volta, anche nei modi più semplici: ai tempi se eri anziano e non potevi muoverti, erano i partiti a organizzarti il trasporto in sezione».
Dopodiché, se si confermerà il trend in calo, chi se ne avvantaggerà? Sul Secolo d’Italia , organo di Fratelli d’Italia, prevedendo il flop dell’affluenza ci si dà la spiegazione anticipata: «Colpa della destra? Del linguaggio aggressivo di Meloni? Del campo largo che nondecolla? Della casta che ruba? No. Sono tutte corbellerie queste ultime. La colpa, o meglio la spiegazione, risiede nel fatto che questa è la tendenza in tutte le democrazieoccidentali soprattutto dopo il crollo delle ideologie». Un invito quindi a non temerla e a non farne drammi; e che farebbe intendere la sensazione di poterne ricavareun possibile vantaggio. Noto conferma: «Fdi e Pd sono i partiti nei quali l’astensionismo può impattare meno perché sono più “ideologici” ». La polarizzazione tra duegrandi campi potrà quindi premiarli. L’astensionismo solitamente penalizza chi è al governo, è un po’ una regola della letteratura scientifica, eppure «in Italia nel 2014 e nel 2019 è accaduto il contrario con Matteo Renzi e con Matteo Salvini», rammenta invece Buttaroni. Nulla vieta che si assista a un tris con Meloni.
In casa Pd la convinzione diffusa è che nei luoghi dove il centrosinistra tiene meglio botta — le grandi città del Nord, meglio ancora se nelle zone non periferiche — si andrà a votare, anche per dare un messaggio forte contro il governo, e quindi l’astensione colpirà qualcun altro. Grande sospettato in questo gioco a è perdere è il Movimento 5 Stelle. In via di Campo Marzio a Roma la si teme parecchio, soprattutto quella al Sud, dove per l’appunto il M5S ha più voti. Ammissione messa nera su bianco via social anche dall’ex ministro Stefano Patuanelli. Non è un caso se Giuseppe Conte in ogni suo intervento pubblico ripete l’invito a recarsi alle urne, né che si sia deciso di chiudere la propria campagna elettorale a Palermo. Le inchieste in Puglia e in Liguria, che potenzialmente potevano portare acqua a mulino del Movimento, rischiano invece di delegittimare la politica nel suo complesso. E paradossalmente è un partito di opinione, senza struttura e senza una ideologia connotata, a soffrirne di più.