Il 10 giugno, oggi, sono cento anni esatti da quando Giacomo Matteotti fu rapito e, poi, assassinato da sicari fascisti. Era un socialista vero, un riformista rivoluzionario, proteso a far crescere una nuova realtà sociale dal basso piuttosto che tentare di cambiarla dall’alto. Il suo nome era sinonimo di profonda cultura, di visione politica ancorata a principi di alta eticità sociale, di coraggio nell’assunzione di posizioni pericolose in tempi di regimi dittatoriali, di intransigenza contro le pratiche elettorali truccate e macchiate di violenza, di lezioni di democrazia.

Matteotti non si era inventato uomo politico; non era sceso in agone dalla sera alla mattina né lo aveva fatto – come di prassi succedeva e succede tuttora- montando il cavallo vincente. Il suo credo politico era simile ad una fede laica impastata di solidarietà, di socialità fra umili, fra gli ultimi di una comunità. Fu Carlo Rosselli, dieci anni dopo la sua morte, a dire che Matteotti “possedeva in grado eminente una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari. Era tutto d’un pezzo. Alle sue idee ci credeva con ostinazione e con ostinazione le applicava”.

Il riformismo di Matteotti (più pedagogico che politico, rivoluzionario ma senza uso delle armi) si basava, al fine di ottenere l’elevazione delle classi inferiori, su tre importanti strumenti: la Scuola, il Comune, il Partito. Egli vedeva nella Scuola il luogo della formazione del cittadino, non quello della selezione delle classi dirigenti. Si trovò a precorrere così, in anticipo di circa cinquant’anni, la visione pedagogica di don Lorenzo Milani e della Scuola di Barbiana.

Il giovane Giacomo sosteneva che il momento formativo in cui era inserito il soggetto in apprendimento dovesse essere libero e spontaneo, non finalizzato ad un processo produttivo ma orientato ad affinare le capacità di osservazione, di analisi, di astrazione. Matteotti guardava poi al luogo della crescita, della partecipazione e della consapevolezza civica: il Comune, una sorta di grande cooperativa di cui il cittadino era (e rimane) un azionista. In tale prospettiva poteva e può spiegarsi il significato di bene comune: un bene (immateriale, spirituale, incorporeo) da raggiungere insieme, in comunità per poterlo rendere collettivo, plurale (la libertà, la bellezza, l’armonia).

Infine, il Partito. La sede, cioè, dov’era possibile rinforzare la coscienza di classe, rinsaldare il vincolo tra rappresentante e rappresentati, abituare le masse a far valere i propri diritti. Educare, in altre parole, a fare politica –con una visione quasi mistica, pari a quella del socialismo- per costruire e non per abbattere; insegnare ad interpretare correttamente il significato di politiké téchne (l’arte, la scienza della politica) e delineare un mondo basato su uguaglianza, giustizia sociale, buon governo, pace tra i popoli. Laddove necessitava, perciò, una società in grado di rinnovare la politica ed un partito al servizio della comunità (e non all’incontrario). Dal che discendeva anche la sua fama di amministratore severo, rigoroso e un poco burbero”.

Giacomo Matteotti fu contro ogni guerra, contro la guerra libica, contro l’interventismo di Benito Mussolini (fu anche processato per disfattismo), perché –come scrisse nel 1915 su “Critica Sociale”- “il miltarismo è essenzialmente violenza, non può limitarsi a funzione di giustizia. Il Bene, che se n’è servito, diventa Male per continuare a servirsene”.

Oggi particolarmente è difficile far passare questo concetto. Più che riflettere, argomentare, dissuadere, l’età contemporanea si caratterizza solo per i dualismi: guerra o pace, bianco o rosso, intero o vuoto. Ed allora si battezzano le guerre lampo, di logoramento, di aggressione, le missioni (armate) di pace, dove i denominatori comuni sono sempre la sete di conquista, quella di vendetta, i grandi capitali e le vittime tra la popolazione civile.

Matteotti col discorso di denuncia del 30 maggio 1924 sui brogli elettorali firmò la sua definitiva condanna a morte. Quella “pecora rognosa” –come lo bollò Mussolini- aveva ritardato la convalida dei voti alla Camera ed aveva turbato il clima di festa, di tripudio dei tanti camerati appena eletti.

Ma soprattutto, il segretario del Psu (Partito Socialista Unitario) con le sue ardenti parole era riuscito a diventare collante di un vasto fronte antifascista; era riuscito cioè a coalizzare i parlamentari dell’opposizione (socialisti, comunisti, sardisti, repubblicani, liberali), che soltanto pochi giorni prima s’erano presentati divisi alla prova delle urne. Matteotti aveva provocato un autentico vulnus e ne era pienamente cosciente.

Precedentemente, però, la sua azione politica di accusa contro le malefatte, le violenze ed i soprusi della banda Mussolini era stata altrettanto inesorabile. Egli aveva rappresentato una spina costante nel fianco di Mussolini ed il suo dossier sugli atti del governo fascista era stato inesorabile più di qualsiasi presa di posizione (inesistente) dell’opposizione politica.

Ancora oggi molti parlano dell’assassinio del parlamentare socialista come la fine di una vita eroica. Matteotti non fu mai eroe; fu un martire, un testimone, che si sacrificò, in piena coscienza, in nome di un alto ideale.

L’autore è presidente a Napoli dell’associazione partigiani Anpi

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