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26 Giugno 2024IL FILOSOFO COMMENTA IL LIBRO DELL’EX VICEMINISTRO STEFANO FASSINA SUL PROGETTO REGIONALISTA
Già deputato e viceministro dell’Economia e delle Finanze nel governo Letta, Stefano Fassina arriva in libreria con “ Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord” (Castelvecchi, 2024), riproponendo in modo più disteso la sua contrarietà all’autonomia differenziata, certezza più rischio di ulteriore detrimento della tenuta unitaria e solidale del Paese. Ma il Fassina che il lettore troverà in questo libro non è tanto il politico, che declina da anni due lemmi che a sinistra insieme non sono così usuali, Patria e Costituzione, l’associazione che ha fondato e dirige, ma il Fassina economista, già al Fondo Monetario internazionale dal 2000 al 2005. Perché gli argomenti che porta contro un progetto politico di questo governo che disunisce l’Italia più di quanto sia storicamente già disunita, non fa bene al Sud, il che si sente sempre più anche a destra, e insieme non fa bene al Nord, il che è solo apparentemente contro-intuitivo, e infine depotenzia il peso dell’Italia in Europa (di quello nel mondo non mette conto parlare, perché in geopolitica il made in Italy non ha mercato), sono gli argomenti dalla testa dura dei numeri dell’economia e della cornice in cui la razionalità economica si muove. Argomenti, esposti in sei agili capitoli, da cui emerge in modo plateale non solo il contro-interesse nazionale dell’autonomia differenziata (lo svuotamento persino istituzionale dello Stato centrale e il venir meno del vincolo di cittadinanza eguale e solidale tra gli italiani, sacrificato alla “secessione di ricchi”), ma anche le conseguenze negative dell’autonomia differenziata anche per il Centro-Nord. E cioè caduta del potere negoziale del Governo italiano nell’Unione europea e ai tavoli sovranazionali, di fronte al ritorno del protagonismo dello Stato nazionale; i rischi altissimi di dumping regolativo interno promosso dall’autonomia differenziata in un contesto di regionalismo competitivo; ulteriore insostenibile garbuglio della regolazione per imprese e famiglie determinato dalla proliferazione di normative regionali differenziate e precarie; le conseguenze economiche negative dell’autonomia differenziata per famiglie e imprese del Nord, ben superiori ai benefici di finanza pubblica derivanti dalle compartecipazioni ‘dinamiche’ ai tributi erariali. Inoltre il rischio di un ritorno ad assetti preunitari in chiave di egoismi regionali potrebbe alla lunga risolversi al Sud, contro la “secessione dei ricchi”, su una altrettanto pericolosa china anti-unitaria della serie “se lasciati soli, allora facciamo da noi”.
Alla ricerca magari (altrettanto illusoria di quella dei vantaggi dell’autonomia differenziata per le regioni settentrionali) di un dumping territoriale, nel quadro economico internazionale, più vantaggioso nei confronti dello stesso Nord. L’insensatezza di questa deriva antiunitaria promossa dall’autonomia differenziata, contro la quale si sono espressi inascoltati Confindustria, Banca d’Italia, Associazioni dell’artigianato e del commercio, cooperative, Anci, sindacati e Conferenza episcopale italiana è tale che è difficile capire perché la Meloni non abbia messo un freno a una riforma che, realizzata, la renderebbe premier di una Repubblica Arlecchino, di un assemblaggio diseguale di regioni che a tenerle insieme non basterebbe come nei secoli che hanno portato agli stati nazionali neanche “il corpo del Re”, figurarsi l’elezione diretta del capo del governo. Una scelta, per altro, contro la cultura politica e la constituency di riferimento di Fratelli d’Italia e Forza Italia. A meno che non abbia ragione Bersani nella sua prefazione, che dietro tutto questo «c’è l’intenzione vera, sancita da un patto politico, di creare una cesura nella vicenda dell’Italia repubblicana. Una rottura rifondativa, che cambierebbe radicalmente l’impianto della Repubblica parlamentare, fino a stravolgerlo, si marginalizzerebbe la funzione del Parlamento e delle istituzioni di garanzia, in primis quella del presidente della Repubblica.
La posta in gioco è altissima. Il lavoro di Stefano Fassina ci aiuta a prenderne consapevolezza».
Insomma, siamo tra Scilla dell’insensatezza e la Cariddi dell’avventura. È arduo pensare che sia possibile costruirci su il ponte sul futuro di cui ha bisogno l’Italia.