Francesco Olivo
Distinguersi, senza rompere del tutto per far pesare i propri voti in Parlamento. «Ora qualcuno si accorge che l’Italia esiste». E il rischio isolamento? «Il ruolo dell’Italia non è accodarsi». L’azzardo di Giorgia Meloni porta l’Italia ai margini dell’Unione europea, in una posizione persino più radicale di quella di Viktor Orban, il ribelle per eccellenza, che almeno un sì lo ha pronunciato (per il presidente del Consiglio Antonio Costa).
La premier lo aveva detto ai suoi pochi interlocutori prima di sedersi a trattare, «oscilliamo tra no e astensione». Così, l’impegno dei giorni scorsi «voglio ascoltare il dibattito e poi valuterò» si è rivelato un mero artificio retorico. La decisione era già presa, insomma, prima ancora di atterrare a Bruxelles. L’Italia, Paese fondatore dell’Unione europea, si mette di traverso sulle nomine e Meloni, che aveva manifestato nei giorni scorsi il rifiuto per il metodo delle trattative riservate solo gruppi politici tradizionali. La presidente del Consiglio lo rivendica: «La proposta formulata da popolari, socialisti e liberali per i nuovi vertici europei è sbagliata nel metodo e nel merito», scrive in un post sui social pubblicato dopo mezzanotte. La scelta viene spiegata così: «Ho deciso di non sostenerla per rispetto dei cittadini e delle indicazioni che da quei cittadini sono arrivate con le elezioni. Continuiamo a lavorare per dare finalmente all’Italia il peso che le compete in Europa» . E in questa ultima frase sta il cuore della strategia perseguita da Palazzo Chigi. Astenersi su von der Leyen, infatti, vuol dire non dare per scontato il voto dei deputati di Fratelli d’Italia il prossimi 18 luglio. «Se Ursula vorrà mettersi al riparo dai franchi tiratori – ragionano i fedelissimi della premier – dovrà guadagnarsi il nostro voto» . Detto in altro modo: la battaglia per ottenere un commissario di peso inizia solo adesso. Se l’Italia avrà più o meno voce in capitolo, dopo essersi confinata in una posizione diversa da tutti lo si vedrà nelle prossime settimane.
Certo, alla lunga giornata di Bruxelles Meloni si è presentata con qualche debolezza in più. I toni duri dei giorni scorsi si sono ammorbiditi solo nella forma. Le difficoltà emergono sin da subito: i suoi Conservatori rischiano di perdere i pezzi. L’unico suo alleato in Consiglio, il ceco Pietr Fiala annuncia sin da subito il sì all’accordo. A Roma, intanto, il suo governo non nasconde più le divisioni, chiudendola in un vicolo apparentemente senza uscita. Antonio Tajani dice che «non si può votare contro von der Leyen» perché nella maggioranza c’è Forza Italia, mentre Matteo Salvini, proprio mentre Meloni sta negoziando, parla delle nomine europee come di «un colpo di Stato». Posizioni inconciliabili, che la portano all’astensione, «nel nel rispetto delle diverse valutazioni tra i partiti della maggioranza», spiegano fonti di governo. Eppure una strada gliela avevano offerta i leader, anche quelli finora apertamente ostili (tra tutti il premier polacco Donald Tusk) che sin dal mattino le hanno teso la mano, riconoscendo all’Italia un ruolo importante. Frasi giudicate tardive, ora che i giochi sono fatti e l’accordo sui vertici dell’Ue è ormai chiuso. Tajani ha lavorato senza sosta perché quei ponti bombardati dal discorso incendiario alle Camere di mercoledì si potessero tornare a percorrere. Il ministro degli Esteri si presenta al mattino al vertice del Popolari in un hotel non lontano dai palazzi della politica comunitaria. Convincere i colleghi di partito a includere se non i Conservatori, almeno la premier italiana non è facile. Tajani ha marcato stretto il capo di governo più potente del Ppe, il polacco Tusk e ottiene una dichiarazione («non si può fare a meno dell’Italia») che aiuta a iniziare il Consiglio con un clima diverso. L’argomento del «rispetto della volontà popolare» nel frattempo è risultato un po’ indebolito dal fuoco amico.
Prima ancora di arrivare a Bruxelles, Meloni si trova ad affrontare una grana importante: Diritto e Giustizia, il partito nazionalista polacco, dice apertamente di valutare l’addio a Ecr, il gruppo dei conservatori europei di cui Meloni è presidente. La bomba la sgancia l’ex premier Mateusz Morawiecki con un’intervista all’edizione europea di Politico: «Direi che la probabilità di uscire è del 50%». Per Fratelli d’Italia è un colpo duro visto che i polacchi toglierebbero 20 deputati a Ecr. Mercoledì delle liti interne avevano costretto a rimandare la costituzione del gruppo parlamentare, «banali questioni interne» era stata la spiegazione della delegazione italiana. Anche ieri da FdI si è cercato di sminuire: «Si vogliono solo posizionare». Morawiecki però si è spinto a immaginare il nuovo approdo: l’alleanza con Viktor Orban e altri Paesi dell’Est, «raggiungere i numeri richiesti per formare un nuovo gruppo non sarà un problema, potremmo avere 40 o 50 membri». La questione entra direttamente nel cuore delle trattative: senza i 20 polacchi i suoi Conservatori non sarebbero più il terzo gruppo (superati dai liberali) e nemmeno il quarto (Identità e democrazia di Le Pen e Salvini). Così, prima di cominciare il Consiglio, la premier cerca di ricucire con Moriawecki. Il dilemma resta intatto fino al cuore della notte, quando Meloni rompe gli indugi e strappa senza rompere completamente. Con una minaccia che reste nell’aria: «Ci vediamo in Parlamento».