Ci ha messo otto giorni. Se lo è fatto dire da Fini, il leader al quale, con un anticipo di trent’anni su di lei, era toccato fare il “lavoro sporco”, o se si preferisce i conti con la Storia. Ma alla fine Meloni si è convinta di essere tenuta a un chiarimento senza le distinzioni che hanno accompagnato tutti i suoi precedenti, dalla lettera al Corriere della Sera in occasione del 25 aprile 2023, a oggi. Distinguo tra “nazismo” e “fascismo”, ieri chiamato chiaramente e finalmente con il suo nome per la prima volta. E tra “fascismo” e “antisemitismo”, l’elemento più grave emerso dall’inchiesta di Fanpage, che ha provocato le reazioni della senatrice di Fratelli d’Italia Mieli, e dopo di lei della senatrice a vita Segre. Inoltre, ciò che s’è visto in Italia è nulla se paragonato allo sconcerto sollevato in Europa da queste rivelazioni, proprio nei giorni in cui la premier era impegnata in una sempre più complicata trattativa sui “top jobs”, gli incarichi di vertice nelle istituzioni europee, che ha visto, anche per via del caso Gioventù Nazionale, l’Italia emarginata e al di sotto del ruolo che le compete a Bruxelles.
Si spiega così lo sfogo che a un certo punto la lettera ai dirigenti della leader del partito lascia trasparire. Quel dire «non ho e non abbiamo tempo da perdere con chi non abbia capito cosa sia Fratelli d’Italia e quali siano le grandi sfide della nostra epoca». Quel modo di reagire a comportamenti «da macchietta». All’incapacità di chi finisce con l’agevolare il lavoro degli avversari di FdI. «Chi non è in grado di capirlo, chi non è in condizione di tenere il passo, non può far parte di Fratelli d’Italia», è la dura sentenza della leader nei confronti di chi riceverà sanzioni assai severe come quelle che sono state decise.
C’è però un aspetto dell’impostazione di Meloni che rischia di indebolire il “punto fermo” messo ieri nei confronti del fascismo, del nazismo, del razzismo e del l’antisemitismo. Ed è questo. Pur avendo rinunciato, come invece aveva fatto nei giorni scorsi, a presentare con intenti eversivi l’inchiesta da cui il caso è partito (la premier era arrivata a rivolgersi a Mattarella, per chiedergli di assicurare il libero svolgimento della vita dei partiti, come se questa potesse contemplare le idiozie paranaziste dei membri di Gioventù Nazionale), Meloni non abbandona del tutto la tesi che la rappresentazione di Fratelli d’Italia e della sua organizzazione giovanile dannosa per l’immagine del partito che ha tuttavia la guida del governo e del Paese sia dovuta alla sottile regia degli avversari della destra conservatrice, che riescono a imporne una sorta di caricatura a tinte fosche e piena di tratti negativi.
Ecco, semplicemente tutto ciò non è vero. È come se la premier avesse fatto due passi avanti e uno indietro. I guai di Fratelli d’Italia – occorrerebbe avere il coraggio di ammetterlo, e la premier compirebbe un grande passo avanti se fosse davvero in grado di farlo – il partito se li è procurati da solo. Magari perché non era pronto alla grande responsabilità che gli è piovuta sul capo. Oppure, e sarebbe peggio, perché ha ritenuto di poter ancora vivere nell’equivoco, nell’ambiguità, anche perché in questo modo non avrebbe rischiato di perdere i consensi delle frange più estreme della destra italiana.
Sarebbe qui impietoso elencare uno per uno gli episodi, gravi, gravissimi talvolta, in cui sono incorsi esponenti di quel mondo. E basta solo ricordare che il Presidente del Senato – dicasi la seconda carica dello Stato – è arrivato a vantarsi di custodire in casa come una reliquia un busto di Mussolini donatogli dal padre: un esempio di sensibilità piuttosto esplicito. Così, nel ripetere, nel sottolineare che quello di Meloni ieri è stato uno sforzo importante, restiamo in attesa di quello decisivo e finale: quando appunto si deciderà ad ammettere che il male della destra italiana viene dalle proprie viscere; non dalla sinistra (ad ognuno i suoi problemi) e neppure dai giornali.