Antonietta De Lillo è la regista di un film su Antonietta De Lillo, la regista di un film.
Non mi chiede il titolo? Così iniziamo con ordine.
Il titolo del suo film?
L’occhio della gallina. Racconta di come un bel film che vince un David di Donatello per i migliori costumi, ottiene la nomination come migliore attrice e migliore scenografia, si aggiudica quattro Ciak d’oro, raccoglie il plauso della critica e i complimenti di cineasti di assoluto valore, si perda nei corridoi dei cinema. Nelle sale praticamente mai.
Il film di cui parliamo è del 2005 si chiamava Il resto di niente.
Aveva ottenuto nel 1998 cinque miliardi e mezzo di lire dal ministero della Cultura. Soldi pubblici, quindi da spendere bene.
Il noto pozzo di San Patrizio.
Per realizzare il film ci impiegai sette anni. E furono sacrifici, lotte, urla, diffide. Però alla fine la soddisfazione di leggere l’invito di Marco Muller, direttore della Mostra di Venezia: mi fai vedere il tuo lavoro?
Proiezione in Sala Grande, trattamento da big.
Emozionata, felice, non mi accorsi che stavo invece andando a vele spiegate contro l’onda alta della ostruzione. Perché quel tributo veneziano, quella consacrazione ufficiale chiusero le porte al film. So che pare incredibile (e l’incredibile è infatti il carattere genetico del film che sta per uscire).
In genere Venezia apre le porte.
In genere sì. Perciò ho fatto L’occhio della gallina. Non intrattiene lo spettatore sulla censura ideologica. Non ho scritto nulla di scandaloso, di sovversivo, di scabroso, di enorme. No, io sono vittima della censura comportamentale, dell’assoluto dominio dell’incoscienza. Esiste un potere, quello della distribuzione, che nega il passo oppure lo concede. È un potere economico che spesso, e senza motivo, punta alle gambe di chi si sforza di fare questo lavoro. Sgambetta, sputacchia, rovina la vita di coloro che pure hanno punti, qualità, competenze.
Il resto di niente era un bel film?
Era bellissimo, ed è stato l’unico che ho potuto fare. L’unico del quale abbia ricevuti solo apprezzamenti, l’unico sul quale abbia goduto di robusti finanziamenti pubblici, Ed anche l’unico perciò che non ha mai raggiunto le sale.
Bel film ma invisibile.
Anche il presidente Ciampi fece cenno, nell’annuale convocazione al Quirinale dei protagonisti dell’industria cinematografica, al film.
Fermo ai nastri di partenza.
Venti copie, cioè niente. E l’Istituto Luce, che avrebbe dovuto provvedere alla distribuzione, mi cita in giudizio perché si ritiene diffamato: 250 mila euro di ristoro.
Lei avrà preso paura.
Di più! Mi ammazzavano la vita, mi troncavano la carriera e volevano pure fucilarmi sotto una montagna di decreti ingiuntivi. Avanzare con una enorme richiesta di risarcimento danni è il sistema perfetto per intimorire, silenziare, seppellire ogni discussione.
Lei ha resistito in giudizio.
E vinto. Primo e secondo grado.
L’occhio della gallina è autoprodotto. Riuscirà a farlo vedere?
È il documento ufficiale di cosa sia divenuto il potere pubblico. Di quanto sia gradasso e si senta indiscutibile. Di come usa i soldi di tutti, e di come li sperpera. Qui non sono in gioco le idee, come ho appena spiegato, ma l’identità, non è una controversia politica ma la certificazione di uno stigma sulla dignità delle persone. Si prescinde dalla tecnica, dal talento, dalle aspettative della critica, dal valore.
L’occhio della gallina
contro l’occhio del potere.
Contro la mano, le scarpe, gli sputi del potere.