La leader porterà i fondi all’1,6% del Pil: un segnale atlantista. Ma il leghista frena le armi a Kiev e agita Palazzo Chigi: lavora per Trump e mina il governo?
WASHINGTON — Quando entra nel salone dell’hotel St. Regis, Giorgia Meloni ha in mano un libro per bambini, “Iris”. Racconta di una fatina pasticciona che si iscrive a una scuola per umani e impara così a controllare i suoi poteri. Potesse usare fino in fondo quelli che gli conferisce Palazzo Chigi, chiuderebbe ogni conto politico con Matteo Salvini. E però non può farlo, non almeno per adesso. Deve gestire l’offensiva, capire fin dove intende spingersi il leghista. Quanto intenda terremotare la sua leadership e il suo governo. Il sospetto, di cui ormai parla apertamente con i suoi, è che si muova come braccio operativo di Donald Trump nei confronti del governo italiano, come Viktor Orbán fa con l’Europa. Che provi a condizionare l’esecutivo, costringendolo a ridurre il sostegno a Kiev a vantaggio di Putin. Una dinamica, è l’analisi, che potrebbe intensificarsi fino alle Presidenziali del 4 novembre. Se poi dovesse vincere il repubblicano, tutto potrebbe precipitare, perché la linea filo ucraina della premier è nel mirino del suo vice. Dovesse accadere, Meloni preferirebbe non farsi logorare e proverebbe ad anticiparlo. Intanto è imminente un suo attacco pubblico contro i patrioti.
I segnali, in questo senso, sono devastanti. Ancora ieri, Salvini ha scientificamente colpito Meloni sul terreno in cui ancora si sente solida: l’atlantismo. E questo sfruttando il fatto che i suoi avversari si rafforzano e gli amici escono di scena: Joe Biden sembra vicino al ritiro, Emmanuel Macron ha resistito all’onda nera e continuerà a sfidarla, il grande alleato Rishi Sunak è lontano dal 10 di Downing Street. Ecco perché ha atteso l’avvio del summit per attaccare la politica estera di Palazzo Chigi. Un follower gli chiede: «Matteo, come fermiamo la guerra in Ucraina? ». «Più armi si inviano – la risposta – più la guerra va avanti». Il contrario della filosofia di Meloni, la copia di quella di filorussi e trumpiani. Ora, per comprendere il peso di queste parole, bisogna riferire della posizione che Meloni porterà al vertice di Washington. Partendo da un fatto: il rapporto tra le spese per la difesa e il Pil dell’Italia per il 2025 sarebbe dell’1,44%. Roma intende lanciare un segnale e comunicare una tendenza al rialzo rispetto alle cifre già trasmesse alla Nato. L’obiettivo è arrivare all’1,6%: ogni 0,1% del Pilvale 2 miliardi e cento milioni, dunque l’impegno dovrebbe crescere di 3 miliardi. L’idea è sfruttare le nuove regole del Patto di stabilità, che permettono di computare gli investimenti per la difesa come “fattore rilevante”, assicurando un rientro più soft dall’infrazione per deficit eccessivo. Sarà Giancarlo Giorgetti, presentando a settembre il piano di rientro, a chiedere alla nuova Commissione di approvare la proposta.
Ma torniamo a Salvini. La sua linea sembra in grado di mettere in crisi l’esecutivo (il renziano Enrico Borghi torna a evocare la sindrome del “Papeete”). In realtà, il vicepremier cerca per ora di spostare il governo nel campo anti-ucraino. È unatenaglia che Meloni teme, anche perché il leghista prepara un’altra offensiva: quella sulla manovra. «Tra gli obiettivi – ha fatto sapere ieri – c’è l’aumento degli stipendi e la riforma delle pensioni». Parole lontane dall’obbligata austerità di Meloni.
Ma è soprattutto la sfida per la collocazione internazionale ad allarmare la premier e farle sospettare del suo vice. Infatti ribadisce la linea: Mosca non vuole la pace, nonostante la “propaganda” (quella sposata in pieno da Salvini). Evita però di polemizzare con i “Patrioti”: «Se mi preoccupa un gruppo filoputiniano? È una ricostruzione da osservatori». In realtà, la preoccupa eccome. Certo, la sconfitta di Le Pen presenta anche un vantaggio: ha rallentato l’operazione di Orbán, che mirava a sfruttare l’eventuale crollo di Macron per spianare la strada al patto tra Trump e Putin sull’Ucraina. Ma è chiaro che Meloni non può gioire per la resilienza dell’Eliseo. E infatti si produce in un’invasione di campo, fuori dal galateo diplomatico: «Nessuno dei tre schieramenti ha vinto ed è in grado di governare dasolo». Scorie della battaglia sui top jobs ,in attesa del 18 luglio, quando la premier dovrà decidere se votare per von der Leyen. Ci pensa, ma si scoprirebbe a destra. Certo è che Salvini la attende al varco. E lo farà anche in ottobre, quando l’Europarlamento dovrà confermare a scrutinio palese l’intera nuova Commissione.
I problemi si sommano, inesorabilmente. Quello geopolitico, allarmante. L’eventuale tracollo nel referendum sul premierato. E poi le casse vuote dello Stato. Timori che non le fanno escludere da qualche settimana l’opzione di anticipare il passaggio elettorale, anche per ridimensionare l’alleato leghista. Per decidere come muoversi, però, Meloni ha bisogno di capire se arriverà il ritiro di Biden e se Trump è ormai un destino ineluttabile. Qualcosa intuirà durante il vertice Nato. Prima del summit prova a concedersi una visita a uno dei musei Smithsonian – quello dei dinosauri – con la figlia Ginevra.