The puzzle as propaganda
21 Luglio 2024Disobbedienti tutti insieme in un archivio
21 Luglio 2024
Uno, l’americano, è da molti considerato il maggior ritrattista nel mondo del jazz; l’altro, l’italiano, con uno scatto alla trombettista Susana Santos Silva ha appena vinto i due maggiori premi mondiali dedicati alla fotografia jazzistica. Sono Jimmy Katz e Luciano Rossetti, i due fotografi che condividono la mostra Dual Rhythms. From faces to stages allestita dal 27 luglio al 30 settembre al MaCoF di Brescia, il prestigioso Centro della Fotografia italiana. Li abbiamo ascoltati sul loro lavoro e sulla filosofia della fotografia jazzistica.
Si dice che il jazz vive nelle foto in bianco e nero ma voi usate anche il colore. Che differenza c’è per voi fra le due tecniche?
JIMMY KATZ — Per me la fotografia in bianco e nero ha un valore estetico eterno, è grafica e teatrale. Il colore può rendere la fotografia moderna e vivace, ma non sempre. All’inizio io sono stato influenzato principalmente dal bianco e nero, realizzavo la maggior parte del mio lavoro con pellicole di quel tipo. Il digitale ha risolto il dilemma di scegliere quando concepisco uno scatto, dato che posso decidere in seguito come mostrare l’immagine.
LUCIANO ROSSETTI — Per me il jazz è il bianco e nero, anche se l’editoria chiede soprattutto il colore. Uno dei miei maestri è il francese Guy Le Querrec, che fotografa solo in bianco e nero. Da lui ho capito una cosa: tutti gli elementi che in uno scatto a colori risultano «sporchi», fattori di disturbo, in bianco e nero possono diventare segni grafici. Comunque per me l’immagine nasce nella testa del fotografo, prima dello scatto; e nasce in bianco e nero oppure a colori, a seconda delle circostanze.
E che cosa significa per voi fotografare? Documentare la personalità del musicista, il suo mondo musicale, il contesto dove vive e agisce?
LUCIANO ROSSETTI — Con le mie immagini voglio raccontare una storia: un festival, un concerto, un musicista. Voglio far vedere tutto, soprattutto quello che il pubblico non può conoscere. Consapevole che il fotografo non farà mai parte della cerchia dei musicisti, e dunque anche la sua visione è parziale.
JIMMY KATZ — Molte delle mie immagini sono il risultato di lavori su commissione. Solo dopo aver raggiunto i risultati richiesti posso permettermi la libertà di scattare foto a mio gusto. Queste sono le immagini che presento quando ho una mostra. Il criterio di questo lavoro personale è: «Cosa vorrei vedere di un musicista che sto fotografando da trent’anni?». Di solito cerco un’immagine che dia allo spettatore la sensazione di trovarsi in un attimo particolarmente intimo, oppure dove si percepisca che sta per succedere qualcosa di speciale. Sono anche consapevole che lavoro a New York, città che cambia costantemente. Scattare qui riflette sempre un momento specifico nella vita del jazz e della città.
Collaborate con la vostra partner nella vita. Questo cambia il lavoro?
JIMMY KATZ — La dinamica spontanea e contrastante che c’è fra me e mia moglie Dena rende le foto imprevedibili e improvvisate. Oltre al jazz, abbiamo lavorato assieme ad altri due progetti, un libro di paesaggi intitolato Salt Dreams e uno sui circhi di strada degli Stati Uniti, World Of Wonders. Sono molto diversi dal lavoro sul jazz.
LUCIANO ROSSETTI — Silvia è la mia compagna da 25 anni, ma non lavoriamo insieme: lei mi aiuta negli aspetti organizzativi e soprattutto è il mio «occhio esterno», spesso critico. Senza di lei le mie mostre non sarebbero così riuscite. E poi mi lascia libero di uscire ogni sera…
Siete attivi anche in altri ambiti. Questo modifica il vostro immaginario fotografico, e come?
LUCIANO ROSSETTI — Per l’«Eco di Bergamo» fotografo il mondo dello spettacolo e da tre anni sono il fotografo ufficiale del Teatro Donizetti: documento musica classica, teatro… In più, dal 2019 ho fondato con altri colleghi l’Associazione Fotografi italiani di jazz, con la quale diffondiamo il gusto della nostra opera e cerchiamo di migliorare le nostre condizioni di lavoro. Quest’attività non ha cambiato il mio «occhio» ma certamente è molto utile confrontarsi con i colleghi.
JIMMY KATZ — Mi hanno sempre interessato gli aspetti tecnici che danno vita a una buona immagine o a un disco ben inciso: oggi sono anche tecnico del suono e produttore. Ma devo fare una distinzione. Quando lavoro a un disco uso le mie competenze per cercare di rappresentare nel modo più accurato i suoni di ogni musicista e lo spazio nel quale stanno suonando; quando fotografo, uso le mie competenze e il mio stile per cercare di creare un’immagine che possa rappresentare lo spirito della musica.
Uno di voi abita nella città più importante nel mondo del jazz, l’altro è alla periferia dell’impero. Che cosa vi interessa di ciò che questa realtà causa nelle foto dell’altro?
JIMMY KATZ — I nostri stili sono molto diversi. Lui ha occhio acuto e rapidi riflessi per catturare l’attimo fuggente, le scene magiche o bizzarre che il pubblico non conosce. Nell’insieme, il nostro lavoro riflette le nostre personalità, le diversità di cultura e di ambiente. Secondo me, questa differenza rende interessante la nostra mostra comune al MaCoF. Speriamo di poterne fare più spesso.
LUCIANO ROSSETTI — Ho conosciuto Jimmy nel 2007 al Festival di Sant’Anna Arresi, in Sardegna, dove mi era stato chiesto di organizzare un convegno sulla fotografia. È scattata subito una forte amicizia ma ho anche capito che lui era diversissimo da me: non aveva neppure pensato di portarsi da casa una macchina fotografica! Frequento New York dallo stesso anno ma vivere lì mi getterebbe in crisi, ogni giorno c’è troppo da fotografare e non riuscirei a scegliere. Dal mio angolo di mondo vado dove mi lasciano lavorare come voglio, cioè entrando negli spazi «privati»: Italia, Austria, Parigi…
La fotografia jazzistica difficilmente ottiene visibilità. Perché va promossa e conosciuta? Che cosa offre che non si trova in altre esperienze fotografiche?
JIMMY KATZ — Il jazz è un genere assolutamente unico, con una storia lunga e ricca che ha prodotto personaggi ed eroi. La fotografia jazzistica riflette questo mondo particolare. Promuoverla significa promuovere quella musica, l’aspetto visivo procede mano nella mano con quello sonoro. Molti vedono gli artisti soltanto sul palco e la mia intenzione è quella di farli conoscere altrove, a casa o in luoghi inaspettati.
LUCIANO ROSSETTI — Il jazz è una realtà culturale unica: ai festival di jazz da sempre ci sono decine di fotografi, mentre quelli che fotografano la prosa o la classica sono mosche bianche. Perciò nell’immaginario comune noi vediamo i jazzisti ancora prima di sentirli mentalmente. Pensiamo alle foto di Dexter Gordon, di Armstrong, Gillespie, Coltrane…
Una riflessione conclusiva?
LUCIANO ROSSETTI — Sono felice che abbiamo la possibilità di esporre insieme al MaCoF. Non capita spesso che la fotografia jazz entri in una sede istituzionale, soprattutto a un livello così elevato.
JIMMY KATZ — Viviamo un momento molto divisivo. Io credo che la musica e la grande arte possano unirci, facendoci apprezzare ciò che l’uomo può realizzare di unico e notevole all’interno di culture differenti.
https://www.corriere.it/la-lettura/