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Non si può non riconoscere come la mostra aperta a Bologna, sotto al titolo Folgorazioni figurative, segua – nel celebrare il centenario della nascita di Pasolini (1922-1975) – una traccia ermeneutica che con insistenza era stata segnalata dallo stesso letterato, sin dai primi anni romani, quando in fuga dal Friuli aveva trovato rifugio nella capitale, scoprendo d’un colpo i lungoteveri zeppi di pischelli, la solitudine dei treni e delle stazioni periferiche, le gallerie d’arte all’ultimo grido e le popolose redazioni di testate a tiratura nazionale, la calma festiva, il vociare delle borgate e il sole di certe canicole africane.
Questa pista, evidenziata come via fruttifera per la decrittazione di tutta un’oeuvre, è quella che lega la parola del poeta, la pagina del romanziere e insieme i fotogrammi del cineasta ai modelli, ai prototipi di un’informata cultura artistica, nutrita a un tempo di concettose esercitazioni in pittura ma anche (e soprattutto) di letture sofisticate, in linea col panorama della critica contemporanea.
È arcinoto quanto, all’uscita di Mamma Roma (il volto dolente della Magnani a invadere lo schermo e un immaginario intero), lo scrittore si fosse affrettato a ricordare un debito «di affreschi» e «di quadri» nei confronti di Roberto Longhi, fra i nomi consolidati – sul 1962 – nel mondo accademico e letterario italiano per il colto scandaglio delle esperienze figurative europee, dai fondi oro sin dentro al Novecento. Meno risaputa è semmai un’altra, precedente confessione, quella con cui Pasolini s’era rivelato chiosatore attento del vero e proprio vangelo vergato dal professore piemontese, e cioè le Proposte per una critica d’arte messe insieme nel 1949 in vista di un incontro al Pen Club veneziano e poi apparse a distanza di appena un anno, a mo’ di manifesto, sul numero d’esordio della rivista «Paragone»: un proclama ironico e dotto, un vademecum sornione e dettagliato, in cui Longhi aveva fatto rimare il termine «poesia» coi segni del pennello, riconoscendo in Dante, Baudelaire e Valéry dei precursori ineludibili del moderno dibattito connesso alla disciplina.
D’altronde, durante gli anni d’insegnamento nell’informale scuola di Versuta Pasolini, docente di fortuna nel dissesto postbellico degli istituti statali, aveva condotto alcuni giovani studenti, istruiti sulla tecnica da Federico De Rocco, a restaurare gli intonaci colorati della chiesetta «rosa» del paese, quella cioè minuscola dedicata a Sant’Antonio Abate, armati di slancio lirico e bucce di cipolla. Restano poi gli olii, gli abbozzi, gli schizzi macchiati di fiori e champagne a garantire quanto durevole fosse nell’uomo l’amore per la tridimensionalità illusoria della pittura; così come documentano di una passione ininterrotta i prestiti inconfutabili, i furti spavaldi e i tableaux vivants artificiati che rimpinguano il linguaggio delle sue pellicole, da Accattone al Vangelo, da La ricotta al Salò apocalittico e avanguardista.
Non stupisce dunque che in clima postmoderno si fossero interrogati su un simile meticciato di immagini, studiosi come Alberto Marchesini e Francesco Galluzzi, nel far uscire in concorrenza, entrambi sul 1994, due saggi fondamentali consacrati al tema, il primo firmando il lavoro Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini, il secondo siglando il non meno rilevante Pasolini e la pittura, per case editrici di prestigio come La Nuova Italia e Bulzoni.
A partire da questi testi e con alle spalle un indiscutibile avallo autoriale, la bibliografia specialistica non ha smesso di interrogarsi su un soggetto a tal punto seducente, inanellando fonti sconosciute, inedite relazioni, curiosità trascurate: anche per questo è un bene che, a Bologna, si sia tornati a meditare su interrogativi siffatti, offrendo un percorso di sintesi esaustiva e di stimolante imbastitura per uno dei filoni fortunati fra le recenti prospettive della ricerca pasoliniana.
La sede dell’esposizione non appaia, del resto, peregrina. È in Emilia, durante gli anni dell’università, che Pier Paolo ebbe modo di confrontarsi, ancora ventenne, con il fecondo magistero di Longhi, titolare della cattedra di Medievale e Moderna presso l’ateneo cittadino, seguendo un corso sull’epocale distanza fra i lessici di Masolino e di Masaccio ma rimanendo di fatto impigliato nell’eloquente autorevolezza del professore, a cui il ragazzo avrebbe chiesto una prima tesi di laurea (in anticipo cioè rispetto a quella concentrata sulla poesia pascoliana, che gli avrebbe garantito a guerra ormai conclusa il titolo tanto agognato, sotto la guida di Carlo Calcaterra).
È pertanto conseguente che proprio Bologna si ritrovi a meditare sul patrimonio composito di opere figurative alla base dello stile pasoliniano: e se l’anno votato alla memorie dello scrittore è stato aperto in bellezza dalla mostra presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, incentrata per l’appunto sulla vita da studente dell’autore e sul suo coinvolgimento nell’associazionismo giovanile fascista, la festa può ben continuare nel sottopasso che di qui a qualche mese condurrà al rinnovato Cinema Modernissimo in Piazza Maggiore, spazio che si presta oggi con efficacia ad ospitare il discorso organizzato dalla Cineteca di Bologna e dai tre curatori, Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gianluca Farinelli.
Molti sono i reperti preziosi che aiutano a capire l’impatto della grande tradizione italiana e di quella europea – da Masaccio a Rosso Fiorentino, da Pontormo a El Greco e Velázquez – sulla produzione dell’intellettuale, l’occhio rivolto in particolare alla sua filmografia: magnifiche le foto di set, specialmente quelle scattate lungo la lavorazione di Mamma Roma da Carlo di Carlo e Angelo Novi; curiose le tracce di frammenti perduti (pensiamo all’episodio L’Aigle o Le Grand cirque tagliato da Uccellacci e uccellini); ben scelte le sequenze dalle pellicole così come i confronti in riproduzione.
Soprattutto però convince la linea interpretativa seguita per organizzare l’evento, che si dipana come un utile fil rouge sia per lo spettatore accorto che per quello meno informato: l’idea cioè che alla base della ricerca di Pasolini e in particolare di quella indirizzata al grande schermo ci sia soprattutto un disperato bisogno d’incarnazione, la necessità di un realismo che – febbrilmente, caparbiamente – punta non solo a una verosimiglianza efficace, ma anche a una consistenza come di carne per le proprie icone.
È alla luce di questa prospettiva che le foto di una performance estrema a cui il poeta poté prestarsi presso la Galleria d’arte moderna di Bologna, nei mesi appena precedenti al violento assassinio dell’Idroscalo, assumono una pregnanza tanto struggente: in quell’azione, concepita dall’amico di sempre Fabio Mauri, Pasolini vide infatti proiettate sul suo petto, sul suo ventre, sopra una camicia bianca e sudata, le sequenze del Vangelo del 1964. Un urlo muto, che meglio di qualsiasi altra didascalia aiuta a comprendere il disegno ultimo di un’esposizione necessaria.