JOSEPH CONRAD
Nessuno resta uguale. Uomini e donne vivono come sognano Da soli. È l’esperienza di Marlow in “Cuore di tenebra” Ed è la lezione del grande autore morto il 3 agosto 1924 Ma le sue avventure di parole e oceani profondi continuano
di
Alberto Manguel
L’esperienza del mondo (world) e l’esperienza della parola (word) si contendono la nostra intelligenza. Vogliamo sapere dove siamo perché vogliamo sapere chi siamo, perché crediamo, come per magia, che il contesto e i contenuti si spieghino a vicenda. Siamo animali dotati di coscienza di sé (forse gli unici animali dotati di coscienza di sé sul pianeta) e siamo in grado di esperire il mondo attraverso la parola, di avere l’esperienza del mondo trasponendo in parole la nostra immaginazione di quell’esperienza, come dimostra la letteratura. In un processo continuo di dare e avere, il mondo ci fornisce i frammenti che noi trasformiamo in storie, e che a loro volta offrono al mondo un’apparenza di senso e coerenza. Qualsiasi posto andrà bene per ispirare Atlantide, qualsiasi posto potrebbe vomitare fuori vestigia del Paese dei balocchi, qualsiasi posto potrebbe essere trasformato attraverso l’immaginazione del narratore in uno specchio del mondo, per quanto scuro, per quanto curiosamente sbieco. Il mondo fornisce gli indizi che ci consentono di percepirlo e noi ordiniamo quegli indizi in sequenze narrative che ci appaiono più vere del vero, sequenze che inventiamo strada facendo, in modo tale che ciò che chiamiamo realtà è quello che diciamo della realtà. «Poiché conosco le cose, le cose non esistono più», dice Flaubert ne La tentazione di Sant’Antonio.
«La Forma è forse un errore dei tuoi sensi, la Sostanza un’immaginazione del tuo pensiero. A meno che, essendo il mondo flusso perpetuo delle cose, l’apparenza non sia ciò che c’è di più vero, e l’illusione la sola realtà».
Il flusso perpetuo delle cose, il cambiamento, il sommovimento sono la caratteristica principale del mondo di Joseph Conrad. Per lui l’illusione era effettivamente la sola realtà. Nel mondo di Conrad, niente e nessuno resta uguale eRacconti dell’inquietudine, il titolo della sua raccolta di cinque racconti del 1898, potrebbe essere applicato a tutta la sua opera. I protagonisti di Conrad finiscono preda di catastrofiche tormente e sconvolgimenti, personali, politici o geografici. Il mondo di Conrad è il mondo degli incubi: non sogni veri e propri, ma un mondo in cui regna la persistente convinzione platonica che l’universo sia un sogno di ombre mendaci sulle pareti della caverna e che noi stessi siamo una di quelle ombre. Tutto ciò che sperimentiamo, tutta la nostra angoscia e il nostro intenso desiderio di condividerla appartengono al regno dell’inconscio, in cui uomini e donne (come dice Marlow in Cuore di tenebra) vivono «come si sogna; soli». In una lettera al direttore della Saturday Book Review del New York Times datata agosto 1901, Conrad rese questa dicotomia ancora più esplicita: «L’egoismo, che è la forza che muove il mondo, e l’altruismo, che è la sua moralità: questi due istinti contraddittori, di cui uno è così evidente e l’altro così misterioso, non possono esserci utili se non nell’incomprensibile alleanza del loro irriconciliabile antagonismo». La letteratura ha offerto il campo di battaglia per questa contesa.
Consapevoli della loro solitudine di fondo, i protagonisti di Conrad condividono tutti una stessa caratteristica: la loro identità è imposta dall’esterno. Sono quello che gli altri vedono che sono. Ognuno di loro porta una maschera costruita da altri e si presenta agli occhi del mondo come un codardo o un campione, un traditore o un amico fedele, un amante o un despota, come a recitare il ruolo che i suoi compari gli hanno assegnato. Almayer, Marlow, Kurtz, Lord Jim, Nostromo, Lena, Schomberg, Flora de Barral, Winnie, Verloc, Leggatt… tutti trovano specchi messigli davanti da un «compagno segreto» che è anche una parte fondamentale di loro. «Il terrorista e il poliziotto provengono dallo stesso paniere», scriveva Conrad ne L’agente segreto.Conrad conosceva le identità doppie, perché lui stesso ne era un’incarnazione.
Józef Teodor Konrad Korzeniowski, come fu battezzato, nacque in Polonia nel 1857. Lasciò la Polonia quand’era adolescente per evitare di essere richiamato sotto le armi dalle autorità russe ed entrò nella Marina mercantile francese, dove si dedicò per breve tempo al contrabbando d’armi intempo di guerra. Il padre di Conrad era un patriota che apparteneva a un gruppo politico che puntava a ripristinare i confini della Polonia prima della spartizione e ad abolire la servitù della gleba. La scelta di Conrad di andare in esilio a causa dell’impegno politico del padre fu all’origine di un senso di colpa che lo accompagnò per tutta la vita e che caratterizza molti dei suoi personaggi di fantasia, intrappolati fra senso del dovere e paura di fallire. A Marsiglia, nel marzo del 1878, quando aveva soltanto vent’anni e soffriva di depressione e senso di alienazione, Conrad cercò di suicidarsi sparandosi al petto con una rivoltella. Sopravvisse e dopo essere guarito dalla ferita cercò di sfuggire alla sua angoscia andando a lavorare sulle navi inglesi, a bordo delle quali rimase per sedici lunghi anni, imparando l’inglese dagli altri marinai. Assunto per guidare un piroscafo in Africa, fu testimone diretto dell’orrore del potere coloniale belga; questa esperienza lo condusse in seguito a evocare Kurtz, l’uomo bianco diCuore di tenebra incapace di concepire il prossimo come un’anima gemella. Cuore di tenebra fu pubblicato quattro anni dopo il suo primo romanzo, La follia di Almayer, scritto nel 1894, all’età di 37 anni. Quando morì, nel 1924, si lasciò dietro quarantatré opere di narrativa fra le più significative della letteratura in lingua inglese.
Conrad era stato educato in polacco e in francese: l’inglese era la sua terza lingua e forse era questa distanza dalle lingue dei suoi anni formativi che lo indusse a sceglierlo come strumento. Scrivere in una lingua straniera, confessò in seguito Conrad, «non coinvolge le parti più profonde e spontanee della psiche e consente una maggiore distanza nel trattare argomenti che non oseremmo affrontare nella lingua della nostra infanzia. Di regola, in una lingua acquisita è più facile sia bestemmiare che analizzare le cose in modo spassionato». La lingua come strumento oggettivo fu un obiettivo che Conrad cercò sempre di conseguire. I temi di Conrad venivano sviluppati sul palcoscenico che conosceva meglio – il mare selvaggio e le ambientazioni esotiche e remote – ma queste cose non erano l’essenza della sua letteratura. Definire Conrad uno scrittore di mare vuol dire non riuscire a capire che navi, tempeste, spiagge lontane sono semplicemente parte del suo linguaggio metaforico, e anche se era tecnicamente perfetto nel descriverle gli servivano come arredi scenici per rappresentare i drammi di identità perdute e angoscia esistenziale alla deriva nell’universo, come un’imbarcazione che vaga senza speranza nell’oceano in una notte senza stelle, o uno straniero disorientato perso in una terra strana. Conrad una volta dichiarò che lui non scriveva racconti di fantasia, perché era come dire che la realtà di per sé non è fantastica. «Non è affatto necessario attribuire il male a una causa soprannaturale», scriveva in Sotto gli occhi dell’Occidente, «gli uomini sono ben capaci da soli d’ogni malvagità!». La realtà, per Conrad, è sempre imperscrutabile e l’unica bussola che abbiamo per navigare nei suoi meandri è immaginare storie che diano alla nostra realtà un qualche tipo di coerenza e significato.
«Solo nell’immaginazione degli uomini tutte le verità trovano un’esistenza effettiva e innegabile», scrisse Conrad inCronaca personale. «L’immaginazione, non l’invenzione, è la maestra suprema dell’arte come della vita. Una rappresentazione fantasiosa ed esatta di ricordi autentici può servire degnamente quello spirito di compassione verso tutto ciò che è umano che sancisce le concezioni di uno scrittore di racconti e le emozioni dell’uomo che riesamina la propria esperienza». In un’altra pagina della Cronaca personale, a Conrad torna in mente una cosa che disse una volta Novalis: «È certo che ogni convinzione aumenta infinitamente l’istante in cui un’altra anima crede in essa».
Certi scrittori credono nel riflettere nelle proprie opere la loro esperienza del mondo, riconoscibile dai loro lettori, altri cercano invece di mostrare gli enormi vuoti di incertezza e mistero che rendono quell’esperienza un enigma. Conrad era fra questi. «La vita», scriveva Conrad, «non conosce noi e noi non conosciamo la vita. Non conosciamo nemmeno i nostri pensieri. Metà delle parole che usiamo non ha il minimo significato e dell’altra metà ogni uomo intende ogni parola in base alla sua sconsideratezza e presunzione. La fede è un mito e le convinzioni si spostano come la foschia sulla riva; i pensieri svaniscono, le parole, una volta pronunciate, muoiono; e la memoria di ieri è irreale come la speranza di domani».
Traduzione di Fabio Galimberti