Cairokee, idols of disillusioned Arab youth
28 Luglio 2024L’arredo urbano si progetta dal basso: semafori, targhe, marciapiedi orientano le città
28 Luglio 2024Stefano Bucci
Sogno e incubo. Sulla terrazza del Metropolitan Museum di New York, Petrit Halilaj mette in scena (fino al 27 ottobre) il coraggio e la paura dei bambini in guerra nelle scuole di Runik, piccolo villaggio del suo Paese di origine, il Kosovo. Halilaj (1986, fresco vincitore in Italia del Premio Stromboli con le sue sculture psico-magiche della serie RU collocate nella Chiesa di San Bartolomeo) ha trasformato, proprio come si fa in uno studio di architettura di ultima generazione, i disegni trovati casualmente sui banchi di una scuola (il titolo Abetare cita quello del libro utilizzato dai bambini di Runik per imparare l’alfabeto) in una maxi installazione di metallo costellata di mostri dalle smorfie inquietanti, di figure minacciose come quelle di Halloween, di fantasmi proiettati sullo skyline della Grande Mela.
Ancora una volta (questa è l’undicesima Roof Garden Commission del Metropolitan) l’arte contemporanea è dunque obbligata a confrontarsi face-to-face con l’architettura della città, aprendo un dialogo, forse involontario, ma comunque non banale e non scontato con le luci e le ombre delle metropoli, di tutte le metropoli e non soltanto di New York. Sono confronti inaspettati, ricchi di spunti, che fanno riconsiderare l’utilità dell’arte nella ridefinizione del tessuto urbano, anche al di là dell’impatto mediatico delle opere di star della street come Banksy o Obey.
Nel 2014, con Hedge Two-Way Mirror Walkabout, Dan Graham (1942) aveva rivestito i padiglioni che decoravano i giardini formali del XVII e XVIII secolo (fantasie architettoniche ispirate alle rovine dell’antichità classica) con le scintillanti facciate a specchio di vetro delle torri di uffici newyorchesi «per simboleggiare il potere economico e la sua capacità di mimetizzarsi». Nel 2016 Cornelia Parker (1956), sempre sul tetto del Met, aveva ricostruito con Transitional Object/PsychoBarn una classica villetta americana in legno a due piani, con tanto di veranda e soffitta, ispirandosi, da una parte, alle case dipinte da Edward Hopper e, dall’altra, alla malefica casa di Norman Bates immaginata da Alfred Hitchcock nel suo Psycho (1960). Nel 2023 Lauren Halsey (1987) aveva assemblato sotto il macchinoso titolo di The eastside of south central los angeles hieroglyph prototype architecture (rigorosamente scritto in minuscolo) frammenti di sculture ispirate all’antico Egitto con segnali stradali, graffiti, murales e altri elementi di arredo urbano «rubati» alla comunità afroamericana di Los Angeles di cui l’artista fa parte.
La (ri)forma della città sembra oggi giocarsi tutta in un delicato equilibrio di tanti estremi (non solo architettonici). Sono gli stessi estremi attorno ai quali (da sempre) gioca la propria partita il britannico Kenneth Frampton, ultranovantenne storico e teorico dell’architettura (leggenda vuole che non ci sia studente delle facoltà di architettura che non abbia avuto tra le mani la sua Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, 1992 ). In suo onore Bloomsbury ha appena pubblicato la raccolta di saggi Architecture and the Public World (a cura di Miodrag Mitrašinovic): volume che raccoglie saggi scritti dagli anni Sessanta a oggi che sintetizzano quelli che secondo Frampton sono «i necessari intrecci storico-teorici dell’architettura con il luogo, la sfera pubblica, l’identità culturale, il paesaggio e l’ambiente urbani e con la difficile situazione dell’architettura del nuovo millennio».
La città del futuro continua a essere per Frampton, come lo è sempre stata, una metropoli «significativamente responsabile della sua stessa edificazione e del suo mondo pubblico»: cioè di quello che costruisce, di come lo gestisce, di come lo fa utilizzare dai cittadini. Ancora una volta uno dei «pensatori architettonici» più sofisticati dal punto di vista teorico e più politicamente impegnati, rompe con i limiti e con le norme di gran parte della pratica contemporanea e ripristina un senso di ricchezza e di conseguenza sociale (concetti che lo stesso Frampton definisce «parzialmente incompiuti») dell’architettura.
Più che un gioco, quello di (ri)disegnare la città è ormai diventata un’esigenza impellente. Così, aspettando le proposte della Biennale di Venezia 2025 (Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva, a cura di Carlo Ratti, dal 10 maggio al 23 novembre) solo per il prossimo autunno-inverno sono in programma Beta, la Biennale di Timisoara, in Romania (13 settembre – 27 ottobre); Tab, la Biennale di Tallinn, in Estonia (9-13 ottobre); World Architecture Festival di Singapore (4-8 novembre); Forum dell’International Union of Architects di Kuala Lumpur, in Malaysia (15-19 novembre). Oltre all’Urban Forum che stavolta si svolgerà in Egitto, a Il Cairo (4-8 novembre), quel Wuf fondato nel 2001 (la prima edizione si era tenuta in Kenya, a Nairobi) dalle Nazioni Unite per esaminare le questioni più urgenti che il mondo deve affrontare oggi a cominciare dalla urbanizzazione e dal suo impatto su comunità, città, economie, cambiamento climatico e politiche.
Nel suo Contro la città usa e getta (Bollati Boringhieri) Vittorio Magnago Lampugnani — architetto, teorico degli studi architettonici, titolare della cattedra di Storia della progettazione della città al Politecnico di Zurigo dal 1994 al 2016 — mette il consumismo («l’impiego di cui non sussiste un bisogno reale») al centro delle problematiche urbane, «per ricordare come il dibattito sulla sostenibilità dell’architettura e della città abbia una dimensione storica e culturale». Magnago Lampugnani cita le comunità agrarie nate in Mesopotamia 10 mila anni fa (dovevano assicurare la stabilità dell’ambiente in cui vivevano e avevano sviluppato sistemi per regolarla) e il naturalista francese Georges-Louis Leclerc de Buffon che nel suo Les époques de la nature (1778) pose la questione dell’impatto dell’uomo sull’ambiente.
«Lo stato di emergenza in cui si trova il nostro pianeta — precisa Magnago Lampugnani — impone alla cultura edilizia un cambio di paradigma, un cambio che deve coinvolgere l’architettura nel suo complesso e che richiede un ripensamento a livello sociale». Torna, come in Frampton, la necessità della responsabilità: «Oggi il 15 per cento della popolazione vive nell’abbondanza consumando l’80 per cento delle risorse; se soltanto il restante 85 per cento degli abitanti del pianeta assumesse le stesse condotte della popolazione europea e nordamericana la Terra collasserebbe». L’atteggiamento responsabile sembra ancora una volta dover partire prima di tutto dalle città visto che proprio «nelle nostre città si consuma il 70 per cento dell’energia e si produce il 70 per cento dei rifiuti e visto che sempre le città sono responsabili del 75 per cento delle emissioni di anidride carbonica».
Se l’architettura può fornire una visione «tecnico-specialistica» dei futuribili paesaggi urbani, l’arte può forse assicurare un possibile elemento di novità (talvolta disturbante). Come nel caso della città raccontata e immaginata dagli artisti al centro del viaggio che dal 26 settembre al 19 gennaio 2025 occuperà Villa Bardini, a Firenze, grazie alla mostra OltreCittà. Utopie e realtà da Le Corbusier a Gerhard Richter. Promossa da Fondazione CR Firenze e Generali/Valore Cultura e curata da Lucia Fiaschi, Bruno Corà, Silvia Mantovani e Claudia Bucelli la mostra propone oltre 120 opere «che — spiegano i curatori — sono sguardi lanciati sulle molte e talvolta discordi identità urbane». Sempre con un obiettivo preciso: superare i confini della città «per offrire una visione ideale e futura di centri urbani a misura umana».
Superare i confini, dunque, e giocare sull’equilibrio degli estremi come i mostri di Petrit Halilaj sul tetto del Met. Sembra questo anche l’invito lanciato da Joseph di Pasquale nel suo Esseri urbani. La città relazionale e i nuovi paradigmi dell’abitare (Il Poligrafo), un invito a oltrepassare i limiti per ricercare prospettive e soluzioni. «Anche perché — spiega l’architetto — la concezione dei modelli urbani e delle tipologie abitative in cui viviamo risale ormai a oltre un secolo fa, quando la struttura sociale ed economica era radicalmente diversa da quella attuale. Oggi la città non può più nascere come elaborazione di un modello teorico da applicare alla realtà, ma come indagine del desiderio di città intrinsecamente connesso alla natura stessa della persona, alla geometria della sua relazionalità sociale, del suo desiderio abitativo come essere urbano».
Un progetto che, secondo di Pasquale, impone «una rivoluzione necessaria, un ritorno alle origini, una rifondazione professionale, per capire come stanno evolvendo i comportamenti, i desideri e le aspettative delle persone per cui vengono disegnate le città». Con la consapevolezza che l’essere umano «è per sua natura anche essere urbano» e che «la città è con ogni probabilità la nostra più grande invenzione, nonché la più attuale». Negli ultimi anni, con una considerevole accelerazione data dal periodo segnato dalla pandemia, abbiamo assistito a una rivoluzione relazionale, con i rapporti sociali o social che stanno cambiando profondamente, mentre la struttura fisica delle nostre città è di fatto, precisa di Pasquale, «ancora quella funzionalista, con centri urbani divisi in zone specializzate per funzioni, collegate da sistemi di trasporto». La soluzione? «Una città fatta di relazioni che nasca dalla comprensione di coloro che abitano lo spazio, puntando e investendo sulle città, caricandole di valori positivi e di bellezza, e soprattutto immaginandole e progettandole per renderle aderenti alle aspettative e ai desideri degli esseri urbani che le abiteranno».
Seguendo, anche per la città, questa sorta di «legge del desiderio» il connubio arte-architettura può rivelarsi ancora una volta dirompente, persino sovversivo, quantomeno disturbante. Rick Lowe (1961), artista afroamericano di Houston, da sempre ha focalizzato il proprio lavoro sul cambiamento che l’arte è capace di portare alle comunità, e quindi nello spazio urbano, ispirandosi all’idea della scultura sociale professata da Joseph Beuys per realizzare lavori che sono prima di tutto una riflessione sulla violenza e sulla povertà a cui lo stesso artista era stato esposto vivendo nei quartieri più disagiati della metropoli texana. In occasione della mostra The Arch within the Arc, la sua prima personale in Italia organizzata da Gagosian al Museo di Palazzo Grimani a Venezia (fino al 24 novembre), Lowe è partito dalla storia dell’antico Palazzo («raro esempio — lo ha definito — di architettura rinascimentale in una città in cui antico e contemporaneo si uniscono») per dare vita a quelle sue mappe luminose e intarsiate — in qualche modo alla maniera del migliore Klimt — che invece dei sobborghi americani raccontano «le dinamiche urbane» di Venezia. Non è un caso, certo: nel 1993 Lowe aveva cofondato The Project Row Houses nel Third Ward di Houston, un quartiere afroamericano storicamente e culturalmente significativo ma anche assai problematico. Un progetto che ha trasformato una piccola area di case abbandonate in uno spazio che unisce gruppi, mette in comune risorse, crea opportunità per giovani, piccole imprese, persone in difficoltà.
«Il ruolo dell’arte non è quello di risolvere i problemi, ma di rappresentarli a proprio modo, reimmaginandoli in un ambito specifico, dove tutto è possibile, secondo le regole del linguaggio delle forme, del pensiero estetico, del concetto della creatività artistica»: nelle parole di Marco Tonelli, curatore della mostra Natura/Utopia. L’arte tra ecologia, riuso e futuro al Palazzo Baldeschi di Perugia (fino al 3 novembre) c’è forse un’altra possibile connessione tra arte, architettura e città. Partendo dalla leggendaria repubblica di Utopia immaginata nel XVI secolo da Thomas More, i tredici artisti scelti da Tonelli hanno ognuno a suo modo proposto una sequenza di riflessioni su temi legati alla natura, all’ecologia e all’urbanizzazione in tutte le sue forme, reinterpretandoli attraverso la lente dell’arte contemporanea.
Maurizio Carta ha scelto di intitolare il suo libro Romanzo urbanistico (Sellerio) «perché le protagoniste assolute del racconto sono le città stesse, oltre alle persone che le abitano, nella loro complessità e vitalità come sintesi mirabile di spazio e società, di luoghi e comunità». Carta, urbanista e architetto, compone 42 ritratti di città (non ci sono solo New York, Londra, Pechino, Mosca, Parigi, Barcellona, Marrakech, ma anche Paducah, «città nucleare» del Kentucky; Hangzhou, «città creativa» cinese; Brest, «città liquida» francese; la vichinga Aalborg, la rinata Tirana e finalmente Favara, in provincia di Agrigento, unica italiana) dove non prevale il registro tecnico-architettonico ma quello romantico-drammatico: non diversamente da Frampton, Magnago Lampugnani e di Pasquale, anche Carta vede dunque le città «come una straordinaria miscela di persone, architettura e natura che nascono, muoiono, vibrano, amano, lottano, sognano» e (soprattutto) «edificano in uno spazio comunque umano, molto umano».
È l’era che Carta definisce dell’Urbanocene: «L’era in cui viviamo, l’era in cui nel pianeta più del 50 per cento della popolazione abita in insediamenti urbani e solo il 3 per cento del pianeta si può definire ecologicamente intatto». Nelle città che tornano a misura dei bisogni e dei desideri dell’umanità una urbanistica non solo tecnica ma emozionale diventa «una condizione essenziale per la sopravvivenza». Un modo, sempre secondo Carta, «per rimodellare gli spazi perché tornino a essere luogo dell’abitare adatti a molteplici, multiformi, multigenere e multispecie stili di vita».
È accaduto così sulla Pista 500 della Pinacoteca Agnelli di Torino dove dal 2022 sono state realizzate installazioni site-specific (le prossime, di Monica Bonvicini e Chalisée Naamani, saranno inaugurate il primo novembre) «che hanno attivato — dicono le curatrici del progetto, Sarah Cosulich e Lucrezia Calabrò Visconti —, inaspettate prospettive con il contesto cittadino che le ospita». È accaduto con David Tremlett che nel 2018, nell’ambito del Museo d’arte contemporanea a cielo aperto di Peccioli (Pisa), ha riempito di colore e forme geometriche i grandi muri di contenimento in cemento armato della discarica di Ligoli e che l’11 ottobre inaugurerà The Organ Pipes per Modena: un grande intervento artistico permanente nell’ex mangimificio Caffarri.
Stessa idea di ridefinizione degli spazi urbani è anche all’origine degli scarrabili,cassoni in ferro per la raccolta dei detriti dell’edilizia, che insieme alle insegne e alle transenne fanno parte del progetto avviato da Flavio Favelli (1967) «per ricercare i segni tangibili di un estro che cova sotto le macerie che punteggiano la città di Palermo». Volutamente Favelli ha ridipinto con colori accesi quelle casse di ferro «sguaiate e scassate» spesso colme di pietriccio e spazzatura, quegli scarti diventati opere d’arte della mostra nella sede del Real Albergo delle Povere del Museo regionale d’arte moderna e contemporanea Riso (La Sicilia e altre figure, fino all’8 settembre).
Ma forse a dover essere (ri)disegnato è anche il mestiere dell’architetto. Marco Biraghi nel suo saggio su Rem Koolhaas (Rem Koolhaas. L’architettura al di là del bene e del male, Einaudi) definisce il progettista Premio Pritzker nel 2000, emblema di una nuova dimensione della professione di architetto, «una rara combinazione di visionario e realizzatore, filosofo e pragmatico, teorico e profeta, un architetto le cui idee sugli edifici e sulla pianificazione urbana hanno rivoluzionato il modo di concepire un moderno studio di architettura, vedendolo come un luogo dove prima di tutto non si disegnano gli edifici ma la realtà».
Ancora una volta, dunque, il dialogo tra architettura e arte contemporanea nel segno di un possibile (ri)disegno della città nasce da un gioco di estremi, proprio come il sogno e l’incubo di Halilaj, un gioco che non deve perdere di vista la realtà urbana. Soprattutto quella, molto quotidiana, delle strade. Per tre settimane progettisti e professionisti dall’Italia e dal mondo hanno così lavorato insieme a oltre mille studenti su un grande progetto condiviso, Wave ovvero Walkable Architectures organizzato dall’Università Iuav di Venezia, un progetto che ha scelto di risalire «alle origini dell’architettura, riconoscendo quanto la nostra esperienza corporea di città e territori attraverso il camminare sia condizione essenziale per ristabilire e intensificare le relazioni». Un camminare declinato in 16 diversi modi: dalla riscoperta e reinterpretazione delle tracce che il camminare ha lasciato e continua a lasciare sulle pietre fino al ridisegno di piazze e spazi pubblici come luogo dove incrociarsi e interagire. Perché, scrive Marco Biraghi, «forse il nostro errore consiste nel cercare sempre il simile nel simile, il politico nel politico, il mercante nel mercante, il criminale nel criminale, l’artista nell’artista». E la città nuova in quella che ci siamo finora immaginati.
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