elena pontiggia
È una mostra emozionante quella che Urbino dedica a uno dei suoi artisti più importanti, Federico Barocci (1533- 1612) e una volta tanto il sottotitolo, “L’emozione della pittura moderna”, non inganna. L’emozione nasce, prima di tutto, dal colore dell’artista. Protagonista del manierismo, anticipatore del barocco (nomen omen…), Barocci sperimenta cromatismi insoliti, quasi come un Nolde o un Franz Marc ante litteram. In Enea in fuga da Troia, immagine-guida della mostra, dipinge l’eroe che prende in braccio l’anziano padre paralitico come se fosse un bimbetto di cinque o sei anni. E fin qui siamo nell’iconografia tradizionale. Ma poi veste quel malato Anchise con un meraviglioso tessuto di un rosa tenero e trasognato, più adatto a una ragazzina che all’austero genitore troiano. A rendere più concitata e gesticolante la scena, poi (abbiamo già detto che Barocci è un precursore del barocco) si aggiungono la moglie di Enea Creusa e il figlioletto Ascanio, tutti e due addobbati con un sovrapporsi di vesti che sono un inno al colore. Sono tinte cangianti, collassate nella luce, talmente piene di variazioni tonali che è difficile descriverle con il limitato vocabolario cui siamo abituati. E se, come diceva Matisse, «una grande conquista moderna è aver scoperto il segreto per esprimersi col colore. La tradizione si è arricchita così di nuovi mezzi espressivi», anche Barocci, come tutto il manierismo, è già un moderno.
Ma non solo. L’altra caratteristica commovente del pittore di Urbino è quella di ambientare le scene sacre nella vita di tutti i giorni. Lo vediamo subito entrando in mostra, dove già nella prima sala ci accoglie la Madonna della gatta, 1598 circa. Si tratta di una natività di Cristo, ma al centro della composizione non c’è Gesù, e nemmeno il piccolo Giovanni Battista che si ingegna a indicare il Bambino a tutti, reggendo anche una croce con la debita didascalia Ecce Agnus Dei. A rubare la scena, come dicono gli attori, è appunto una gatta, e attira talmente l’attenzione che il dipinto è rimasto noto col nome del felino, al posto del più ufficiale Visita di santa Elisabetta con san Giovannino e san Zaccaria. Barocci, si intende, non ha nessun intento dissacratore, anzi. Gesù addormentato accanto a Maria evoca la sua futura morte e la Deposizione, mentre l’ascia e il martello da carpentiere in primo piano rimandano al lavoro di Giuseppe, ma anche alla costruzione della croce. Eppure tutto ha un sapore quotidiano, umanissimo, che coinvolge l’osservatore. Non a caso Barocci piacque a san Filippo Neri, l’inventore degli oratori per i ragazzi, fautore di una spiritualità incarnata nella vita di tutti i giorni. Sullo sfondo del quadro, del resto, Barocci non dipinge la Terrasanta, ma un improbabilissimo Palazzo Ducale di Urbino, omaggio alla sua amata città natale e, più ancora, al duca Francesco Maria II della Rovere, che aveva commissionato la Visita per rendere omaggio a un’altra visita: quella del papa Clemente VIII nelle Marche. Vivacità del cromatismo e intensità degli affetti, insomma: Barocci, come dicono gli storici con le loro formule, mescola nel suo manierismo il colore veneziano e il pathos di Correggio e, movendo da Raffaello, introduce al Seicento.
Lasciandoci alle spalle la prima sala, inoltriamoci ora nel percorso della mostra, curata da Luigi Gallo e Anna Maria Ambrosini Massari. con Luca Baroni e Giovanni Russo. Con circa ottanta opere, la rassegna è articolata in sei nuclei tematici: la formazione di Barocci e il rapporto con Urbino, le grandi composizioni, gli affetti e la natura, la grafica, gli studi preparatori, gli ultimi lavori. Prima, però, vediamo di sapere qualcosa di più sull’artista, che è ben noto agli studiosi ma molto meno al grande pubblico e comunque è meno famoso di quanto meriterebbe. Barocci si forma a Roma, dove studia la pittura di Raffaello ed entra in contatto con gli Zuccari, coi quali lavora agli affreschi del casino di Pio IV. Intorno al 1565, poco più che trentenne, torna a Urbino, da dove non si muoverà più: saranno i committenti a cercarlo, per i suoi ritratti, le pale d’altare, le sue incisioni dalla tecnica innovativa a morsure replicate.
Appunto alle pale d’altare è dedicata la seconda sala della mostra, dove spicca la gigantesca (è alta oltre quattro metri) Deposizione, 1567-69, della cattedrale di san Lorenzo a Perugia, una macchina compositiva che si riallaccia al Rosso Fiorentino, ma soprattutto ci fa partecipare alla drammaticità della scena: la Madonna sviene, le Pie Donne corrono verso di lei, la Maddalena si stringe al corpo senza vita di Cristo, altre cinque persone si affannano a staccarlo dalla croce. E non meno agitato è il colore, dai gialli d’oro e di cera fusa alla famiglia allargata dei rossi.
La terza sala, dedicata agli affetti, è il cuore del percorso espositivo e quasi tutte le opere esposte potrebbero radunarsi qui. Notiamo, tra i tanti dipinti presenti, la Natività del Prado, con la vivace invenzione iconografica di san Giuseppe che apre la porta ai pastori, indicando con la mano il Bambino e magari pregandoli di non far rumore. La familiarità della scena, come sempre, nasconde significati profondi: il cesto di pane e il sacco di spighe in primo piano, per esempio, non sono solo l’alimento precario della Sacra Famiglia, ma alludono al miracolo eucaristico. Quotidiano e soprannaturale, insomma, si fondono e anche qui è difficile descrivere la maestria dei colori, dal lilla roseo dell’abito di Maria ai tanti azzurri della coperta del Bambino. Ciò che sembra facilità e felicità compositiva nasce invece da ostinati studi preparatori, da prove e riprove, come dimostra la quinta sala che, accanto alla quarta sulla grafica, rivela l’eccellenza del mestiere dell’artista, non appannata nemmeno nelle ultime opere.
Si racconta che san Filippo Neri abbia avuto un’estasi di fronte a un dipinto del Barocci. Non sappiamo se sia vero, ma anche noi che non siamo santi possiamo, se non estasiarci, entusiasmarci per la sua pittura.