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4 Agosto 2024Assenza di una definizione legislativa e concettuale di “centro storico”
La mancata previsione di una disciplina ad hoc per i centri storici va imputata soprattutto alle difficoltà che sono state incontrate nel momento in cui si è tentato di circoscrivere l’oggetto della tutela: in altre parole, non esiste una definizione di centro storico ed i tentativi che sono stati fatti in passato hanno avuto come risultato una nozione spesso oscillante, per cui alla fine non si saprebbe nemmeno che cosa tutelare.
Già le leggi del ’39 ignorarono la questione dei centri storici, mirando sostanzialmente ad una tutela passiva dei singoli monumenti, prescindendo dal contesto ambientale in cui risultassero inseriti.
Il primo vero momento di considerazione dei centri storici da parte del legislatore si è avuto con la legge-ponte . L’art. 17, comma 5, di tale legge introdusse, come si è detto, una forma di tutela che finalmente guardava ai complessi ambientali e non soltanto ai singoli immobili di particolare interesse. La norma vieta, negli “agglomerati urbani aventi carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale”, ogni alterazione di volumi e ogni costruzione sulle aree libere, fino all’approvazione dello strumento urbanistico generale.
Peraltro tale normativa non definisce i detti agglomerati. Pertanto, apparve subito evidente l’opportunità di una specifica determinazione da parte del consiglio comunale in sede di adozione del Prg. (o Pdf.) o con apposita delibera.
Nello stesso anno della legge-ponte, a titolo esclusivamente orientativo, il ministero dei Lavori pubblici tentò, con circolare 28 ottobre 1967, n. 3210, una definizione di detti agglomerati, riferendosi:
a) alle strutture urbane in cui la maggioranza degli isolati contengono edifici costruiti in epoca anteriore al 1860, anche in assenza di monumenti o di edifici di particolare valore artistico;
b) alle strutture urbane racchiuse da antiche mura in tutto o in parte conservate, ivi comprese le eventuali propaggini esterne che rientrino nella definizione di cui sopra (punto a);
c) alle strutture urbane realizzate anche dopo il 1860, che nel loro complesso costituiscono documenti di un costume edilizio altamente qualificato.
Mentre l’art. 17, comma 5, della legge-ponte può comunque ritenersi modificato dalla nuova disciplina per i territori sprovvisti di qualsiasi piano urbanistico comunale, ai sensi dell’art. 4 legge 27 gennaio 1977, n. 10 ed analoghe leggi regionali [6], ancora vigente è la disciplina sugli standards urbanistici, introdotta sempre dalla l. n. 765/67, ai sensi dell’art. 17, commi 8 e 9.
Tale disciplina è contenuta nel noto d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, che, tra i vari settori territoriali omogenei, distingue la tanto dibattuta “zona A”.
L’art. 2 stabilisce che “sono considerate zone territoriali omogenee (…) le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da posizioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”.
Peraltro da tale norma deriva, indirettamente, una definizione ristretta di “centri storici”, come zona da sottoporre a vincoli conservativi di natura urbanistica, e normalmente comprensiva della parte più antica della città e delle zone contigue, ma lontana dalla considerazione attuale del centro storico nel suo rapporto costante con l’evoluzione della vita della comunità.
In tale direzione vale la pena citare la definizione di centro storico che si ricava dalla recente legge urbanistica della Regione Lazio 22 dicembre 1999, n. 38 (“Norme sul governo del territorio”). Questa, dopo aver tracciato le finalità degli interventi sui centri antichi (art. 59), prescrive che “sono centri storici gli organismi urbani di antica formazione che hanno dato origine alle città contemporanee. Essi si individuano come strutture urbane che hanno mantenuto la riconoscibilità delle tradizioni, dei processi e delle regole che hanno presieduto alla loro formazione e sono costituiti da patrimonio edilizio, rete viaria e spazi inedificati. La loro perimetrazione, in assenza di documentazione cartografica antecedente, si basa sulle configurazioni planimetriche illustrate nelle planimetrie catastali redatte dopo l’avvento dello stato unitario. L’eventuale sostituzioni di parti, anche cospicue, dell’edilizia storica non influisce sui criteri indicati per eseguire la perimetrazione.
Gli insediamenti storici puntuali sono costituiti da strutture edilizie comprensive di edifici e spazi inedificati, nonché da infrastrutture territoriali che testimoniano fasi dei particolari processi di antropizzazione del territorio. Essi sono ubicati anche al di fuori delle strutture urbane e costituiscono poli riconoscibili dell’organizzazione storica del territorio” (art. 60).
Tale norma non fa cenno a criteri cronologici, ma a parametri distintivi fondati su una visione più “moderna” dei centri storici, in un costante processo di adeguamento del territorio alle esigenze e agli interessi dell’uomo.
Recentemente, com’è noto, è entrato in vigore il d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, costituente il Testo Unico in materia di beni culturali e ambientali. Questo non fa riferimento ai centri storici, dato che, come si evince dalla relazione stessa del T.U., si è “avuto cura di mantenere inalterate quelle formulazioni delle due leggi fondamentali (l. 1089/39 e l. 1497/39) che hanno ormai assunto nella consolidata esperienza giuridica un valore quasi sacrale per la definizione di contenuti sostanziali delle discipline dei beni culturali e dei beni ambientali”. Pertanto i centri storici non sono stati inseriti nel novero dei beni culturali ex art. 2.
Peraltro, l’art. 4 del T.U. dispone che i “beni non ricompresi nelle categorie elencate agli artt. 2 e 3 sono individuati dalla legge come beni culturali in quanto testimonianza avente valore di civiltà”.
Si tratta di una norma che “rende omaggio” alla definizione unitaria di bene culturale proposta per la prima volta dalla commissione Franceschini, per cui il bene culturale era spiegato quale “testimonianza materiale avente valore di civiltà” e che dà una continuazione normativa a quanto previsto dal recente d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, in materia di conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali.
L’art. 148, comma 1, lett. a) di tale decreto, infatti, definisce come beni culturali, “quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico (…) e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base alla legge”. In ogni caso sia la formula utilizzata dall’art. 148 del d.lg. 112/98 che quella dell’art. 4 del T.U. non hanno una immediata efficacia operativa che consenta di qualificare una cosa come bene culturale, ma occorrerà comunque a tale fine l’intervento da parte del legislatore.
Proprio in questa direzione si inserisce quella terza parte del parere del consiglio nazionale per i Beni culturali e ambientali sullo schema di T.U., che evidenzia i temi sui quali sono particolarmente urgenti interventi di innovazione e di revisione legislativa.
Tra questi, in particolare, il consiglio nazionale auspica la redazione di una legge sulle città storiche, la quale estenda l’ambito dell’azione di tutela oltre i limiti propri della l. 1089/39, al tempo stesso congiungendo in modo organico e nel pieno rispetto delle competenze di comuni, province e regioni l’intervento di salvaguardia con la normativa urbanistica e territoriale [7].
A tal proposito, nella precedente legislatura era stato presentato al parlamento un disegno di legge d’iniziativa dell’ex ministro Veltroni sulle “città storiche”, con cui per la prima volta si è tentato di assegnare ai centri storici la loro giusta collocazione nel novero dei “beni culturali”. La finalità generale del provvedimento era proprio quella di proteggere, recuperare e valorizzare i centri storici italiani.
Il disegno di legge muoveva pregiudizialmente dalla osservazione che i centri storici assumono interesse non solo per l’enorme valore storico-artistico che in essi è contenuto, non solo per la caratterizzazione del territorio su cui insistono, ma anche e soprattutto per il turismo che essi richiamano, poiché il turismo costituisce una delle maggiori risorse per l’economia italiana.
Il progetto di legge si riferiva non solo ai centri storici, ma anche alle “città storiche”, estendendo l’attenzione dal centro storico, propriamente detto, ai quartieri e ai siti di interesse storico e artistico che attorniano il centro storico per conservarli e valorizzarli.
Si trattava di un disegno di legge che affidava ai comuni gran parte dell’attività di conservazione e di valorizzazione, sia sotto il profilo organizzativo che sotto il profilo economico.
Esso si basava su alcuni istituti fondamentali della legge 241/90 come l’accordo di programma e l’accordo sostitutivo, e altri (alcuni dei quali di nuova istituzione) quali la “perimetrazione”, la “Conferenza comunale degli eventi e delle manifestazioni”, la “dichiarazione di interesse culturale” per i locali in cui si svolgono quelle attività tradizionali (artistiche, artigianali, culturali, etc.) che oltre a far rivivere il centro storico, possono potenziare il settore occupazionale e produrre ricchezza, anche per i flussi turistici da essi richiamati.
La vera novità del progetto di legge era quella secondo cui spettava ai comuni perimetrare le zone con caratteristiche storiche (centri, quartieri, siti), dopodiché il sovrintendente per i Beni ambientali e architettonici si sarebbe espresso sulla conformità della perimetrazione all’effettiva estensione del patrimonio storico urbano (sia in eccesso che in difetto) e in caso di inerzia del comune, sarebbe stato il sovrintendente a proporre la perimetrazione al comune, se riscontrava l’interesse storico-artistico meritevole di tutela.
Tale proposta normativa è stato uno dei punti più discussi del disegno di legge poiché in molti ritenevano che nei centri storici così perimetrati non si sarebbe potuto “muovere un dito” senza l’autorizzazione del sovrintendente.
Nel novembre del 1997 l’Inu (Istituto nazionale urbanistica) aveva approvato una mozione con la quale criticava aspramente il provvedimento qualificandolo come “legge datata”. L’Istituto contestava, in particolare, il tentativo di “isolare i centri storici e la loro salvaguardia dalla più generale disciplina urbana e territoriale” e segnalava “la pesante limitazione dell’autonomia dei comuni”.
In ogni modo, nonostante le critiche, sembrava che il provvedimento dell’ex ministro Veltroni continuasse a lasciare intatta l’autonomia del comune, affidando alla sua discrezionalità la decisione riguardo a se provvedere alla perimetrazione e al programma d’intervento, poiché il sovrintendente aveva, in questa fase, solo una funzione di supporto alle scelte.
Fino ad oggi la mancata formulazione di una specifica definizione di centro storico, va imputata a sua volta alla indeterminatezza del concetto giuridico stesso di centro storico.
Infatti, nel momento in cui questo è preso in considerazione dalla disciplina urbanistica, e quindi non appena quest’ultima sembra trasferire l’oggetto della materia dalla tutela di tipo culturale a una tutela di tipo urbanistico, il centro storico viene definito come bene culturale.
Leggendo, infatti, l’art. 41-quinquies, comma 5, legge n. 1150/42 (introdotto dall’art. 17 della legge-ponte), che si occupa delle zone dell’abitato che hanno un valore storico-artistico-ambientale, e andando poi a vedere, nel d.m. n. 1444/68, la definizione della zona A, ci si accorge che, pur essendo il centro storico diventato una zona urbanistica, in realtà è definito come bene culturale: si fa riferimento, cioè, alle sue caratteristiche storico-ambientali.
Ciò non ha fatto altro che alimentare l’alone di ambiguità e incertezza che circonda la questione in discussione, perché a voler interpretare letteralmente l’art. 41-quinquies, il centro storico dovrebbe essere tutelato esclusivamente come zona urbanistica. Peraltro si fosse interpretata tale norma per quello che effettivamente dice, non tutti i Prg avrebbero dovuto procedere alla individuazione del settore A, poiché in molti comuni del nostro paese non c’è un centro o una parte dell’agglomerato urbano che abbia quei caratteri storico-artistico-ambientali richiesti dalla legge.
Ma poiché ciò non si è verificato, questo significa che l’interpretazione che è stata attribuita alla locuzione della legge-ponte (poi spiegata nel d.m. n. 1444/68) è stata una interpretazione ampia ed elastica: nonostante si fosse definito il centro storico come un bene culturale, esso è stato poi inteso esclusivamente come una zona urbanistica.
Predieri nel 1972 osservò che lo strumento urbanistico “può prevedere o non prevedere che una porzione del territorio venga considerata centro storico”. Il legislatore “non dispone né che il comune sia tenuto ad individuare un’area come centro storico, né quando sia tenuto a farlo”, nello strumento urbanistico generale “il centro storico può esserci o non può esserci; e qualora esso ci sia, non vi sono criteri posti dalla legge per determinarlo” [8].
- continua