«Soffro di ‘ansia sociale’ fin dall’infanzia. Ero una bambina silenziosa e riservata ma tutto è cambiato con una vecchia videocamera». Racconta così la sua scoperta del cinema Leila Amini il cui film, A Sister’s Tale ha aperto la Settimana della critica locarnese, sezione indipendente all’interno del festival focalizzata sul documentario. La storia come suggerisce il titolo è una narrazione famigliare, quasi un diario in cui la camera dell’autrice si fa testimone e insieme memoria di un’esperienza di liberazione individuale nella quale si riflette quella di una collettività. Siamo in Iran, Nasreen, che è la protagonista, e la sorella di Amini, è sposata con due figli. Aveva una voce molto bella ma il matrimonio l’ha costretta a abbandonare il canto anche perché la legge iraniana non permette alle donne di cantare in pubblico.L’immagine codificata della maternità, gli interni famigliari: in concorso «Salve Maria» di Mar Coll, e «Drowning Dry» di Laurynas Bareisa

PIAN PIANO si è trovata intrappolata in quel ruolo di moglie e di madre, con un marito molto conservatore e assente, la depressione post-parto dopo la nascita della seconda figlia con la quale è ingrassata decine di chili, un’infelicità da cui sta per farsi travolgere. Per questo vuole tornare al canto, la musica è lo strumento che può permetterle di cambiare la propria vita, di avere quel respiro verso il mondo che le è stato sottratto. Per sette anni Amini la filma questo interno di famiglia che oppone sua sorella non solo al marito ma a volte anche a sé stessa, e poi alle altre sorelle e alla loro madre, a loro volta condizionate dalla logica di un patriarcato che le porta a preservare il suo matrimonio – «Pensa ai tuoi figli, li renderai infelici» ripetono – condannando duramente le sue decisioni. La sola dalla sua parte è la regista, che ascolta senza mettersi in campo ma che nella scelta di un punto di vista dichiara la sua posizione, e quanto ciò che sta vivendo la sorella è una condizione che riguarda tutte le donne iraniane. Nasreen riprende il suo tatuaggio, una nota, il sol; ricorre alla chirurgia per rimediare le conseguenze dell’aumento di peso sul corpo, ritrova la musica, il canto anche se una scena femminile non puàòesistere finché ci saranno i divieti, affermare la propria presenza fuori dalle porte chiuse è anch’esso un modo per cambiare la società.

NON È UN PERCORSO lineare che accade in questo tempo lungo di cambiamenti non semplici e mai scontati, così come non lo è la presenza davanti all’obiettivo di Nasreen. Ciò che piano si afferma durante il viaggio delle due sorelle, e insieme a loro di coloro che sono parte della loro vita, è una relazione nella quale il movimento di una finisce per intrecciarsi anche a quello dell’altra, regista e interprete entrano cioè in uno spazio comune. Che è lo stesso spazio in cui cambiano i due bambini, la piccola in particolare, come se la trasformazione della mamma sia parte del loro modo di stare al mondo. Amini filma in modo aperto, documenta le fratture assumendo anche i rischi delle contraddizioni che portano con sé, stanchezza, dubbi, conflitto, dolore. «La vecchia sé stessa» come Nasreen si definisce prima del matrimonio (neppure di amore ma combinato), non può semplicemente tornare, deve essere conquistata in un processo che è fatto di tanti frammenti in un film di prossimità e di vita.

Le figure femminili sembrano essere uno dei riferimenti centrali nella proposta complessiva sugli schermi del festival. Sono due sorelle anche le protagoniste di Drowing Dry, nel concorso internazionale, opera seconda del regista lituano Laurynas Bareisas che col debutto Piligrims aveva vinto gli Orizzonti veneziani nel 2021, e che qui costruisce una indagine emozionale entrando nelle famiglie delle donne protagoniste. Mentre sono in vacanza nella casa sul lago, con i mariti e i figli, la rilassatezza delle loro giornate viene interrotta da un incidente, la figlia di una delle due rischia di annegare. Il trauma lascia dei segni, e solleva problemi di cui nessuno del gruppo sembra essere stato fino allora consapevole – o che forse erano controllati soltanto nella superficie – mutando gli equilibri fra tutti i personaggi. Quella rottura sembra insanabile, e sul significato che per ciascuno assume l’autore mette in campo una gamma di inquietudini in cui ciascuno può riconoscersi.

REGISTA e sceneggiatrice riferimento delle nuove onde catalane, Mar Coll in Salve Maria – sempre nella competizione – si confronta con la maternità interrogando la convinzione che dà per scontato il binomio donna-(buona)madre per avventurarsi fra ipotesi meno codificate a partire dal libro della scrittrice basca Katixa Agirre, Le madri no. Protagonista è una giovane scrittrice che ha da poco avuto un figlio, e che quando legge la notizia di cronaca di una madre che ha ucciso i suoi gemelli inizia a chiedersi, sempre più ossessivamente se lei potrebbe mai fare lo stesso. Rispetto a Saint Omer (2022), il film di Alice Diop premiato a Venezia, Salve Maria ne rappresenta quasi un controcampo – pure se lì la figura della ricercatrice incinta che partecipa al processo della madre assassina si poneva un po’ gli stessi dubbi rispetto a sé stessa. Il personaggio di Coll però – a cui Laura Weissmaht dà il giusto equilibrio – non vive una situazione estrema di marginalità e esclusione sociale, è una madre che come molte altre deve affrontare ancora oggi questa condizione in solitudine, assumendo su di sé la fatica ei cambiamenti quotidiani che vengono dati come «normali» nel suo essere donna per dare voce alle fratture che ne sono parte, ai dubbi che sono un tabù.

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