Dietro le immagini di Maria e nella devozione popolare si nasconde un passato pagano che il cristianesimo non è riuscito a cancellare Anzi, se ne è servito per diffondersi. Aiutato anche dai grandi artisti
«Tutto considerato è un bene che ci siano tanti santi, così ogni credente può scegliersi quello che fa al caso suo». Così Wolfgang Goethe, in un passo delViaggio in Italia , testimonia il sovraffollamento del pantheon popolare italiano, fittamente abitato da santi, beati, patroni, Madonne miracolose, reliquie prodigiose, taumaturghi specializzati in questa o quella malattia. Una sorta di politeismo sottotraccia che nasconde spesso vestigia di antichi culti, le cui radici affondano nelle profondità di una remotissima memoria pagana.
È il caso della devozione mariana che a James George Frazer, autore a fine Ottocento di quella summa dell’antropologia moderna che è Il ramo d’oro , appare un’eredità del culto di Iside. I rituali notturni in onore della dea lunare, i suoi sacerdoti tonsurati, i suoi mattutini, i suoi vespri, la sua musica tintinnante, il suo battesimo e le sue aspersioni di acquasanta, le sue sontuose processioni, gli ricordano in maniera impressionante le cerimonie del cattolicesimo. Il grande antropologo arriva addirittura a sostenere che l’immagine della dea, con in braccio il figlio Horus, somiglia talmente alla Madonna col Bambino da venire spesso adorata per errore dai cristiani.
Insomma, sotto il nostro cosmo religioso si celerebbe un autentico pandemonio mitologico. Una fusione-confusione di cui alle origini del cristianesimo i Padri della Chiesa come Sant’Agostino avvertono tutto il pericolo. Per l’autore deLa città di Dio , infatti, le sculture antiche sono corpora deorum ,corpi di quegli dèi che Dante chiama falsi e bugiardi. E che il cristianesimo ha trasformato in potenze demoniache. Dunque, l’identificazione tra divinità e simulacro, tipica dell’immaginario pagano, si trasmette a quello cristiano, soprattutto cattolico. Di fatto la Chiesa di Roma che non ha mai conosciuto fenomeni come l’iconoclastia e la condanna delle immagini, condivide con le religioni precedenti la venerazione delle figure sacre, anche nel tentativo di far propri tratti del paganesimo troppo radicati nella coscienza collettiva per poterli cancellare con un colpo di spugna. Semplicemente, alle rappresentazioni delle divinità dell’Olimpo sovrappone Cristo, la Vergine e i santi.
È una vera e propria conversione dei simulacri. Una traduzione da un linguaggio religioso all’altro. Ma l’operazione non riesce sempre alla perfezione. Come nel caso della credenza nel potere intrinseco delle icone e delle reliquie ancora viva nella religione popolare, lontana anni luce dalle incorporee astrazioni della teologia. Per i devoti la statua miracolosa della Vergine non rappresenta la Madonna. È la Madonna. O, meglio, Santa Maria. E il dipinto che ritrae il volto del santo, per una sorta di proprietà transitiva del sacro, ne conserva i poteri taumaturgici e la potenza miracolosa.
Ecco perché la schiera di anime in fermento che affolla i grandi santuari come un microbiota della fede, cerca un contatto fisico con il sacro, un autentico corpo acorpo mediato dall’immagine, dalla reliquia, dalla tavoletta votiva. Ed è il bisogno di una relazione carnale con la potenza taumaturgica a mantenere in vita pratiche precristiane come l’incubazione, che consisteva nel dormire all’interno dei templi di numi guaritori come Apollo e Asclepio, in attesa che il dio si manifestasse in sogno e concedesse la grazia richiesta.
Il rito si è conservato a lungo negli usi del cristianesimo popolare, anche se la Chiesa ha più volte tentato di ostacolare queste forme di culto eccessivamente indipendenti. Ma i devoti aggirano spesso e volentieri il divieto e passano la notte all’interno dello spazio sacro, come avviene in occasione della festa di San Rocco a Torrepaduli, in Salento. O la notte fra Pasqua e il Lunedì di Pasquetta a Sant’Anastasia, nel tempio della miracolosissima Madonna dell’Arco. O a Polsi in Aspromonte nel santuario della Madonna della Montagna. Insomma, gli dèi esiliati dal cristianesimo riaffiorano come diceva la grande scrittrice inglese Vernon Lee, vestendo i panni riadattati della Vergine e dei Santi. In realtà a favorire il ritorno degli dèi in esilio è anche ilRinascimento con la riscoperta della classicità. E poi il barocco che recupera, come vecchi mattoni pregiati, gli elementi del pantheon antico e li inserisce nella costruzione culturale della Controriforma. Così i numi detronizzati riemergono alla superficie del presente sotto forma di allegorie, di simboli. Sdoganati sì, ma trasformati in citazioni del passato, confinati nelle riserve della statuaria e della pittura. Condannati a una sorta di cattività artistica.
Da allora l’Italia, oltre ad apparire come il paradiso dell’archeologia, appare come un luogo intriso di paganesimo e di magia. Di una sorta di paganissima religione della natura che innerva la vita e la cultura finendo per contagiare, perfino l’arte sacra, come dice il celebre scrittore e critico d’arte inglese Walter Pater a proposito di Raffaello e della sua cerchia.
Quelle anime sensibili e rabdomantiche che sono i viaggiatori del Grand Tour sentono la grandezza antica e quasi idolatrica che dorme al fondo della religione cattolica e volgono le spalle all’arido e scontroso protestantesimo che ha raggelato i loro spiriti. Perché vedono nel Belpaese l’ultima propaggine della classicità, abitata da un popolo antico a sua insaputa. Un residuo di passato riaffiorante, oltre che nelle arti e nell’archeologia, nei comportamenti e negli atteggiamenti degli italiani. Che appaiono come altrettanti reperti di un’antichità vivente. A scrittori come Madame de Staël e Théophile Gautier, ad archeologi e studiosi d’arte come Johann Winckelmann e Aby Warburg, a filosofi come Friedrich Nietzsche e più di recente ad artisti come Pablo Picasso, Igor Stravinskij e Hans Werner Henze, gli abitatori dello Stivale appaiono più di casa nel passato che nel presente. Impegnati in una «eterna luna di miele paganeggiante», dice Henry James in quello splendido racconto che è L’ultimo dei Valerii .
Dove l’Italia appare sigillata nel suo passato come una mosca nell’ambra.