Tre collocazioni a Weimar, luogo simbolo della cultura tedesca, Museum Neues, Bauhaus Museum e Schiller Museum indagano su un tema spinoso in una mostra di grande interesse, aperta fino al 18 settembre, curata da Anke Blümm, Elisabeth Otto e Patrick Rössler e accompagnata da un bel catalogo, a cura degli stessi, edito da Klassik Weimar e Hirmer (pp. 258, € 49,90), che reca in copertina sullo sfondo del rosso della bandiera nazionale del Reich un bambino che gioca con un aeroplano, perfetto simbolo della bellicizzazione dei giochi voluta dal regime.
I titoli delle esposizioni spiegano i diversi aspetti della questione e sono dedicati rispettivamente a: «Battaglie politiche sul Bauhaus 1919-1933», «Staccati-sequestrati-manipolati» illustra il destino delle opere d’arte entartete, ossia degenerate, non rispondenti ai canoni hitleriani e «Percorsi di vita nella dittatura» illustra i destini dei protagonisti dell’esperienza determinante della scuola ideata e diretta da Walter Gropius.
Il racconto più noto di questa esperienza ha sempre visto i protagonisti della straordinaria avventura didattica, come contestatori del nuovo ordine. Molti, provenienti dal mondo ebraico o aderenti ai partiti di sinistra presero la via dell’esilio, ma altrettanti invece entrarono ufficialmente nel mondo del regime, parteciparono alle moltissime esposizioni, fiere, celebrazioni che venivano organizzate per celebrare le nuove glorie germaniche.
Due fotografie ufficiali del Führer, del 1935 e del 1937, per una rivista tedesca e per una francese, lo presentano su una sedia che fu a lungo legata alla sua immagine, di produzione Thonet, opera di Albert Lorenz, allievo di Marcel Breuer.
La vicenda del Bauhaus è fortemente segnata dall’avvento del nazismo: la scuola, spesso contestata dai conservatori e messa in discussione, nel 1932 viene subito allontanata da Dessau, dove vince la NSDAP. La grande esposizione ricostruisce nel dettaglio, con un grande lavoro documentario i destini degli allievi. Otto furono quelli uccisi nei campi di sterminio e nei ghetti: la più celebre era Otti Berger, maestra della teoria e della pratica e del pensiero tessile, che disegnò stoffe con Mies van der Rohe e verificò procedimenti di estrema innovazione, stampando su plastica in una primitiva versione del cellophane, pensando a una produzione di massa di qualità. Fuggita nel suo paese, Zmajevac, in Croazia venne arrestata e deportata a Auschwitz e uccisa.
Non meno interessante l’opera di Fridl Dicker-Brandeis, anche lei detenuta nel campo e poi morta a Birkenau. Una artista e imprenditrice di grande valore, la cui memoria è legata anche allo straordinario lavoro realizzato a Terežin con i bambini deportati, a cui chiese di tenere un diario grafico della deportazione. Il Bauhaus aveva un numero limitato di allievi, al massimo duecento, ed è quindi possibile che il destino avessero portato le signore a incontrare uno studente di poco più giovane, Fritz Ertl, il cui profilo viene ricostruito esattamente in tutta la sua complessità paradossale. Proprio lui, allievo di Mies, e propugnatore di una visione modernista dell’architettura ebbe il ruolo di ideare i forni crematori del campo, di cui disegnò i progetti. Il suo profilo è il più clamoroso, tra quelli ricostruiti dalla mostra. Faceva da sempre parte del Partito Nazista austriaco, che era stato messo fuori legge dal governo nel 1933. Nel 1938 entrò nelle SS, in cui fece una prodigiosa carriera, finendo come SS-Untersturmführer, a capo dell’enorme macchina di costruttori dello sterminio. Infine lasciò l’impresa partendo volontario per il fronte: venne assolto dal lungo processo che seguì il conflitto, contando anche sulla mancanza dei documenti, conservati in buona parte a Mosca e non accessibili.
Non meno clamoroso il destino di Fritz Ehrlich: comunista fino dalla giovinezza, agitatore noto alla polizia in scioperi e manifestazioni spesso estreme, era anche attratto dall’arte e per questo nel 1927 si iscrisse al Bauhaus, lavorando nel campo della grafica. Arrestato nel 1934, viene inviato a Buchenwald e nel 1937 inizia a lavorare per le SS. Lui è l’autore della scritta in bianco e rosso, composta con i caratteri tipicamente Bauhaus, a cui l’esposizione dedica un ampio spazio. Tale fu il successo della scrittura, che l’artista venne incaricato anche dello stesso compito a Sachsenhausen. Abile a surfare in una situazione storica di estrema complessità, ebbe comunque modo di far valere il suo passato di agitatore, e per questo fece carriera comunque nella DDR, disegnando mobili per la grande produzione.
La sezione che gli è dedicata reca un titolo assai tranchant, parlando di un improbabile “monumento all’onestà”.
La mostra individua esattamente la vulgata critica sul Bauhaus come luogo di elaborazione e resistenza al Nazismo. Nel 1938 il Moma a New York presenta una mostra che fa epoca: «Bauhaus 1919-1928», a cura di Herbert Bayer, che si riuniva a altri due protagonisti della scuola già attivi in città: Gropius e Mies van der Rohe, Marcel Breuer, Anni e Josef Albers, László Moholy-Nagy e Lucia Moholy. Il progetto era stato fortemente voluto da Alfred Baar che ebbe un ruolo importante nell’acquisto di opere tedesche per il museo newyorkese, secondo procedure spesso complesse e talvolta discutibili, ma che portarono alla salvaguardia di numerosi capolavori.
La mostra tripartita di Weimar è quindi una occasione importante per rivedere le categorie del Novecento, a partire dai dati statistici riportati con grande precisione nel display, in cui si apprende che la metà degli allievi e dei docenti rimasero nella Germania hitleriana, in cui trovarono una collocazione. La propaganda göbbelsiana era sempre disponibile a prendere dell’elaborazione contemporanea quello che tornava utile, malgrado le dichiarazioni continue e furenti contro la modernità “degenerata” di cui il Bauhaus era stato il luogo principale di affermazione e diffusione in Germania e in ambito internazionale.