Weimar e le spine del bauhaus
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Grünewald, Holbein, Raffaello: Gualdrini prende in esame tre capolavori e la loro capacità di affacciarci su uno scenario di macerie e una promessa di gloria Nei tre dipinti, che hanno segnato la cultura europea, il patire umano e divino è al centro ma non si risolve in sé. Una riflessione sul tempo delle cose ultime
Dobbiamo ad Aby Warburg l’esaltazione delle Pathosformen, di quel tendersi del patire sino all’esito tragico ch’egli aveva studiato a proposito della Mostra su Ovidio (1927), ravvisando in Orfeo il rapprendersi di «espiazione, estremo sacrificio » e sottolineando il «culminare della dinamica poetica / epica e lirica / nel dramma reale dell’epoca moderna » . Non diverso sembra il punto d’osservazione di Giorgio Gualdrini nel Trittico delle cose ultime (Pazzini, pagine 560, euro 32,00) che egli dedica alla Crocefissione di Isenheim di Matthias Grünewald (1512-1516), a Colmar; al Cristo nella tomba di Hans Holbein il giovane (1521-1522), a Basilea; e alla Madonna Sistina di Raffaello (1512-1513), a Dresda, opere evocate sin dalla copertina del libro.
Quei capolavori si dispiegano, non a caso, nel decennio più tragico (1512 – 1522) del Rinascimento europeo, con la rottura definitiva della cristianità nei molteplici rivoli della Riforma, con quello scoprire nell’uomo tanta miseria e peccato che nulla gli è possibile senza quel Corpo che “ha preso su di sé” tutta la nostra abiezione, secondo il monito che risale alla Prima lettera di Pietro: « qui peccata nostra ipse pertulit in corpore suo super lignum, ut peccatis mortui iustitiae viveremus; cuius livore sanati estis » (2, 24-25): « Egli si caricò dei nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue livide piaghe siete stati guariti».
L’autore rievoca con dovizia di esempi, sin dal secolo XII, la storia iconica dell’“Uomo dei dolori” sino alla tremenda Pietà di Cosmé Tura (ora al Museo Correr, Venezia); ma la sua contemplazione va oltre, cercando sempre di raggiungere, per evocazioni analogiche, la nostra contemporaneità: così nel porre accanto a quel lancinante documento la Pietà
(Sudan 1985) di Sebastião Salgado. Il saggio varca la
morfologia, dispiegata – modello per tutti – da Louis Réau nel suo vasto repertorio Iconographie de l’art chrétien,
1955-1959; poiché ciò che preme è la convocazione del nostro presente: il secolo che sembra immemore del cristianesimo ne è profondamente intriso, non fosse che dalla decomposizione di quel Corpo e di quella storia, quale ad esempio emerge dalle pagine che Huysmans consacra alla Crocefissione di Grünewald, nella visione che assale Durtal: «Sopra questo cadavere in eruzione, emergeva la testa, tumultuosa, enorme; cinta da una contorta corona di spine, essa pendeva, estenuata, schiudeva appena un occhio opaco, in cui rabbrividiva ancora uno sguardo di dolore e di terrore» ( Là-bas).
Tutto il libro è teso tra «il dramma e la gloria», in una visione filosofica dell’arte dietro la quale si sente le lezione di Hans Urs von Bathasar. D’altra parte urge la testimonianza di molti scrittori nei quali conta l’istanza metafisica, da Dostoevskij a Rilke, da Elias Canetti a Guido Ceronetti; è un dialogo continuo, e teso, tra l’immagine e la parola, tra l’ostensione che irrompe e l’arreso commento. In questa vigile Teodrammatica può apparire quasi eccezione l’apparire della Madonna Sistina di Raffaello che occupa l’ultima parte del libro; ma anche qui tale “maternità” è preparata da una storia di “apprensioni” e reinterpretazioni come quelle che conobbe la Madonna del Parto di Piero della Francesca, così intensamente evocate da Pietro Calamandrei. In quel caso la Vergine è, a un tempo, la Theotókos e la Madonna dei Sette Dolori, della quale Calamandrei osservava: «Tutti i volti di Piero sono impassibili e assorti; ma qui c’è qualcosa di più della impassibilità senza sorriso: c’è la dolente previsione di un destino di sofferenze che si matura sotto quella carezza. […] Qui, in quella bocca contratta che si sforza di non piangere, in quegli occhi abbassati che ignorano lo spettatore e si concentrano, oltre la realtà visibile, nella interna contemplazione, si esprime […] la presaga accettazione della gestante che sa d’esser chiamata a perpetuare, attraverso il suo dolore, il dolore del mondo» ( Un incontro con Piero della Francesca).
Non diversamente Giorgio Gualdrini convoca, intorno alla Madonna Sistina, testimoni d’eccezione quali Dostoevskij (che ne teneva sopra il divano della sua casa a San Pietroburgo una riproduzione) e Sergej Bulgakov, il quale scrive nel 1918: «e d’improvviso, inatteso, l’incontro miracoloso: la Madonna Sistina di Dresda: Tu stessa, Madre di Dio, toccasti il mio cuore ed esso tremò al tuo richiamo. […] Non era un’emozione estetica, era » ( La luce senza tramonto). un incontro, una nuova conoscenza, un miracolo
Dobbiamo pensare che il lungo percorso del patire divino e umano termini in questa radiosa agnizione? In effetto, l’autore rinuncia al lieto fine e ci conduce, ancora una volta, al destino di Dresda durante la seconda Guerra mondiale, e alla fissità smarrita del Bimbo in quel dipinto, concludendo: «Questo Bambino di Galilea sembra guardare, atterrito, il mondo e le cose. Lo scrisse anche il giovane Schopenhauer nel primo verso della lirica dedicata alla Madonna Sistina: “Ella lo porge al mondo; ed egli guarda atterrito”».
Forse, di questo lungo viaggio nello splendore e nell’abiezione della vicenda umana, nessuna formula meglio condensa l’opera, che il dolente e contemplante titolo di uno dei capoversi finali: Angeli e macerie; endiadi che richiama una delle più toccanti testimonianze che ci abbia lasciato Yves Bonnefoy: « È ancora una chiesa? I pilastri / Hanno vacillato nella morsa del fuoco. / Gesso annerito ciò che fu fastigio, / Angeli e frutti hanno chiuso i loro occhi. / […] / Vi sia caro questo santuario, amici, / ove rischiarano i segni, è quasi l’alba.» ( Après le feu, da Ensemble encore, 2016).