La «mostra diffusa» è una tradizione molto italiana: partire alla ricerca di installazioni di arte contemporanea in borghi arroccati e campagne remote è un modo per scoprire opere e artisti, incontrarsi, conoscere realtà locali insospettate ma soprattutto per confortarsi del fatto che l’arte serve a qualcosa di non quantificabile ma pur sempre evidente, e di cui si può fare esperienza. Per sua natura la mostra diffusa è ancor più temporanea di altre forme di esposizione, addirittura evanescente: la si vede in pochi, e quando è riuscita dura nella memoria – una qualità che sempre più raramente hanno le mostre negli spazi tradizionali – e il ricordo delle opere si intreccia con quello di perdersi nelle campagne italiane.
La mostra diffusa dell’anno è stata, tra il 4 e l’8 settembre, Panorama Monferrato, curata da Carlo Falciani in quattro piccoli borghi che si guardano dai crinali delle colline piemontesi: Camagna, Vignale, Montemagno e Castagnole. Ormai alla quarta edizione, Panorama è un progetto assai complesso promosso da Italics, un consorzio di gallerie private. L’idea è nata durante la pandemia da Pepi Marchetti Franchi (Gagosian) e Lorenzo Fiaschi (Arte Continua) e oggi Italics raccoglie circa settanta gallerie italiane di arte antica, moderna e contemporanea, che organizzano una mostra annuale con opere del loro «inventario» selezionate da un curatore; le edizioni precedenti si sono svolte a Procida (2021), Monopoli (2022) e L’Aquila (2023). Le opere esposte sono soltanto un aspetto dell’operazione: l’ambizione è di far scoprire luoghi poco conosciuti della penisola coinvolgendo le amministrazioni locali, le associazioni culturali e, quando è possibile, studenti di scuole e accademie d’arte.
Anche l’opportunità per un curatore di rovistare nell’inventario di settanta gallerie, avendo a disposizione una varietà sconfinata di opere e oggetti che non sono ancora «pezzi da museo», non è un aspetto secondario. La mostra dura quattro giorni, è prodotta dalle stesse gallerie, con la collaborazione e il supporto degli enti locali, non ha fini commerciali e del commercio, è necessario dirlo, non si sente neanche l’odore. Dopo quattro anni Panorama si è consolidata in un modello che potrebbe aprire varie riflessioni sull’agire comune nel contesto pubblico, sull’intreccio tra mercato e produzione culturale e sullo straordinario valore dell’evanescenza quando è frutto di seria riflessione. O d’altro canto, sui rituali del mondo dell’arte, sullo scarto sempre maggiore tra l’iniziativa privata e quella pubblica, sulla pervasività del concetto di «esperienza» e sul sogno condiviso dai borghi in via di abbandono di ogni parte d’Italia di trasformarsi in location.
Quest’anno, per la prima volta, è stato invitato a concepire il progetto uno storico dell’arte antica e non un contemporaneista: Carlo Falciani, già curatore per Palazzo Strozzi, fra 2010 e 2018, della trilogia di mostre sul manierismo toscano, da Bronzino a Pontormo e Rosso, al Cinquecento a Firenze, oltreché, insieme a Keith Christiansen, di The Medici. Portraits and Politics (2021) per il Metropolitan Museum. Con lo sguardo lungo dello storico Falciani irrompe nell’annoso (e un po’ noiosetto) tema del dialogo tra arte contemporanea e arte antica da una prospettiva semplice e radicale: perché alcune cose durano e altre no, e quali domande poniamo alle opere per divinarne l’eventuale durata. La civil conversazione di Stefano Guazzo (1574), un dialogo su come stare al mondo tra un gentiluomo di Casale Monferrato ammalato di malinconia dopo essere stato a lungo recluso a causa di una pandemia e il suo amico medico, ha fornito a Falciani lo spunto ideale per dipanare il suo discorso ancorandolo alla storia di lunga durata del Monferrato. Best seller europeo, il trattato di Guazzo divenne una pietra miliare della trattatistica morale e comportamentale per un paio di secoli: la tesi è che la conversazione è l’essenza del vivere civile poiché fornisce la griglia per ogni possibile dialogo, tra giovani e vecchi, residenti e forestieri, umili e potenti, semplici e colti.
Articolato in quattro tappe che rispecchiano i capitoli della Civil conversazione, il percorso è cominciato con Camagna attorno al tema Lavoro e radici, è proseguito a Vignale con Ritratto e identità e a Montemagno con Caducità e morte, e si è concluso a Castagnole con Sacralità dell’arte, anche laica. Evocando un’altra pietra miliare della letteratura rinascimentale, l’Hipnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1499), un racconto di trasformazione attraverso tappe, prove e incontri con persone e opere d’arte, Falciani ha concepito la mostra come un viaggio iniziatico che parte dalla quotidianità del lavoro e termina nell’immaterialità della dimensione spirituale. La sfida è stata quella di riportare nell’ambito del discorso sull’arte termini così abusati e strumentalizzati da essere diventati urticanti: radici, identità, decadenza, sacro; nozioni che sono ormai ostaggio di una visione del mondo reazionaria nella migliore delle ipotesi e, all’opposto, puritana e censoria.
E dunque, nelle parole di Falciani: «a Camagna in un ex orfanotrofio femminile ci sono delle opere ferrose, rugginose, aggressive, che mescolano radici agricole e industriali, come quelle di questo territorio (Binta Diaw, Arcangelo Sassolino, Salvatore Scarpitta, Giuseppe Uncini…). A Vignale, nel sontuoso Palazzo Callori, si vedono invece ritratti sontuosi (Ottone Rosai, Alex Katz, Mirabello Cavalori, Susan Pilar…). A Montemagno, in una sede monumentale e decadente allo stesso tempo, ci sono fiori seicenteschi, fiori che stanno appassendo, cieli che cadono, un canto in una chiesa in disfacimento (Giuseppe Recco, Francesco Vezzoli, Latifa Echakhch, Theaster Gates…). Nell’ultima sede, invece, le opere quasi non si vedono, si devono cercare, perché sono evanescenti e disperse o senza figurazione (Maria Elisabetta Novello, Alfredo Pirri, Atelier dell’Errore…). L’ultimo pezzo, di Luca Vitone, ci costringe a camminare su una luce per trovare, in fondo, l’odore dell’Eternit, un profumo che sacralizza una delle grandi tragedie contemporanee», che ha causato la morte di 392 persone negli stabilimenti di Casale Monferrato.
Il curatore ha selezionato oltre cento opere di sessanta artisti, alcuni dei quali anonimi, prestate da sessantadue gallerie. L’enorme varietà non ha diluito un percorso nitido, lungo il quale ci imbattiamo in opere antiche e moderne il cui tratto distintivo è la dimensione meditativa e in oggetti d’uso come gli strumenti di armaiolo settecenteschi o uno stupefacente specchio da uomo in legno di erica. I confronti diretti tra antico e contemporaneo sono rari ma memorabili: il ritratto di Mirabello Cavalori, commissionato da un uomo in memoria del suo compagno morto (Ritratto di giovane come allegoria dell’amicizia, post 1565), che si specchia nelle lightbox di Susan Pilar con le fotografie d’epoca delle donne della sua famiglia che celebrano il compimento dei quindici anni vestite di bianco, in un rito di passaggio che tiene insieme le generazioni (Lo que contaba la abuela, 2017); o, nelle segrete voltate del castello di Montemagno, il santo divorato dai tarli attribuito al Maestro della Santa Caterina Gualino (1300-’50), che guarda il commovente video di Theaster Gates Gone are the Days of Shelter and Martyr (2014), un concerto per voce, contrabbasso e rumori di cantiere in una chiesa di Chicago in corso di demolizione.

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