Le liti tra Renzi e Calenda, i tormenti di Carfagna e Gelmini Quello che per decenni è stato il mito della politica non esiste più Ecco perché
Anche Carlo Calenda e Matteo Renzi ne hanno dovuto prendere atto: il centro è diventato una sala d’aspetto. Gli unici treni che passano sono quelli imposti dal bipolarismo: o centrodestra o centrosinistra. Calenda dopo le Europee non sa più cosa fare, Renzi è tornato precipitosamente sotto l’ala di Elly Schlein. Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, lasciata Azione, hanno trovato rifugio tra i Moderati di Maurizio Lupi, magari in attesa di riprendere il loro posto in Forza Italia, se Antonio Tajani sarà così magnanimo. O di qua o di là.
Rifugio di cartelli elettorali illusori, micropartitini, liste personali, il centro è la vanità dei leader personali: poi la gente va a votare e puf! il cartello si scioglie come neve al sole.
Evocato per una vita come quel luogo magico dove si vincono le elezioni ormai è il Santo Graal della politica italiana. L’enigma che nessuno afferra.
«Oggi vige la logica degli uni contro gli altri, e il centro non sa dove andare», dice l’ex vicepremier Marco Follini, che il piccolo mondo romano lo conosce come le sue tasche.
Ci ha provato pure il sindaco di Venezia, Brugnaro, lo agogna il Marattin fresco di divorzio renziano. Ma oggi chi invoca la terra promessa del centro rischia di fare la fine di quegli uomini che hanno trascorso metà della loro vita nell’attesa e l’altra metà nei rimpianti.
Eppure, sublime paradosso, l’Italia profonda che decide le elezioni è moderata, è di centro. Solo che l’attuale legge elettorale la costringe a scegliere. «Il centro esiste?», chiediamo al professore Roberto D’Alimonte, che studia i flussi elettorali. «In teoria sì» risponde infatti. «E avrebbe un grande spazio, soltanto che non trova interpreti».
La contraddizione è solo apparente.
Se ci fosse una Merkel l’Italia profonda la voterebbe in massa, così come ha scelto per quarant’anni Democrazia cristiana. Chiunque ha la fortuna di girare la provincia lontana da Roma e Milano, finisce per imbattersi in quest’anima conservatrice. Un mondo di decoro, di buone maniere e del tengo famiglia, uomini con le maniche della camicia arrotolata fino al polso e vecchie zie che regolano ancora la vita con uno sguardo.
È il Belpaese tendenzialmente diffidente nei confronti dello Stato, aggrappato alle tradizioni, ma anche capace — e anche qui non c’è contraddizione — di grandi slanci, sincera coesione, civismi, cultura, persino radicalità. Non ètroppo di destra. Non è nemmeno troppo di sinistra.
I territori, come li chiamano oggi, non amano le estreme. È sempre stato così. Quando il fratello di Dossetti andò da Moro annunciandogli che non si sarebbe ricandidato con la Dc perché deluso dal mancato coraggio, Moro lo gelò: «Noi rischiamo di esserlo stati fin troppo». Lo statista temeva che la Dc si trasformasse in un partito d’ordine e infatti ammoniva: «La sinistra è il nostro nemicoesterno, la destra il nostro demone interno». Follini ricorda che Cossiga poi affinò questa massima con la frase: «La sinistra batte la destra, il centro batte la sinistra». «Solo che questo oggi non è più vero», ammette Follini. «Perché la storia d’Italia è sempre stata una sequela di alternanza: il rosso e il nero da una parte, il grigio che sfocia nel bianco dall’altra ». Ora, si capisce, è il momento della fase nera. Delle impazienze. Schlein sta pazientemente cercando di tenere insieme tutte le anime, perché sa che non c’è alternativa.
Al momento però è ancora l’ora di Giorgia Meloni, che ha i voti della maggiorana silenziosa, perché gli italiani alla fine amano quelli che la sanno lunga, credono in chi vince, e al centro non vince nessuno. Eppure in teoria i milioni di moderati non dovrebbero stare con lei. E non sono moderati i leghisti che votano per Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, due che potrebbero stare benissimo al centro? Quante contraddizioni!
Meloni però è un caso particolare. Due anni di governo non l’hanno resa più moderata, il potere non l’ha concretizzata, non è nei due corpi del re di Kantorowicz. È ancora la ragazza che dà il meglio di sé nel conflitto. La cosa non stupisca. Ci sono donne e uomini che trovano il loro equilibrio nello scontro, e si compiacciono del loro brutto carattere.
Sul perché Calenda e Renzi abbiano fallito esistono due scuole di pensiero. La prima è che il centro non sopporta i caratteri troppo assertivi. La seconda è che nessuno ha saputo entrare davvero in sintonia con i territori. Non poteva che finire così. Il centro esige delle pazienze che nessuno dei due ha.