di Ettore Sequi
Da alcune settimane, su queste colonne, sottolineo l’intenzione israeliana di separare i diversi fronti di guerra e mettere in sicurezza i propri confini, frammentando il cosiddetto Asse della resistenza (Hamas, Hezbollah, Houthi, milizie sciite in Siria e Iraq), per prepararsi a un possibile confronto diretto con l’Iran. Gli eventi di questi giorni ridefiniscono, almeno in parte, posizioni e strategie dei principali attori in causa.
Dal punto di vista di Israele questo era probabilmente il momento migliore per una azione dirompente contro Hezbollah, a poche settimane dalle elezioni negli Stati Uniti. Approfittando di un progressivo indebolimento di Biden e per anticipare una eventuale vittoria di Harris, Netanyahu ha preferito “incassare” tutto subito, creando una situazione di fatto compiuto. Del resto tra Netanyahu e Stati Uniti vi era una differenza di opinioni su come gestire il problema della minaccia di Hezbollah ai confini settentrionali di Israele. A Washington si riteneva che il raggiungimento di un cessate il fuoco a Gaza avrebbe interrotto o limitato le azioni ostili di Hezbollah. Il governo Netanyahu, invece, non potendo accettare un cessate il fuoco per la ferma opposizione dell’ultradestra, ha preferito una azione dirompente contro il Partito di Dio.
Per il governo israeliano questo era probabilmente il momento migliore per agire. Innanzitutto è oramai improrogabile il rientro nelle proprie abitazioni dei circa 70.000 coloni sfollati dal Nord del Paese a causa dei bombardamenti di Hezbollah. Ciò sia per gli elevatissimi costi politici, economici e sociali della situazione, sia per il peso elettorale dei coloni. Inoltre, l’operazione in Libano avviene a pochi giorni dall’anniversario del 7 ottobre: un modo per galvanizzare l’opinione pubblica israeliana e mettere in ombra le prevedibili proteste dei parenti degli ostaggi. È un fatto che nelle ultime settimane la popolarità del Likud sia cresciuta nei sondaggi.
L’Iran esce gravemente indebolito dalle operazioni israeliane in Libano. Finora Teheran ha utilizzato l’Asse della Resistenza, con al centro Hezbollah, vero e proprio gioiello della corona, come presidio, braccio operativo e deterrente contro un possibile attacco israeliano o americano. Un articolato sistema di difesa avanzata che consentiva a Teheran una guerra per procura contro Israele e allo stesso tempo “scudava” l’Iran da un possibile confronto diretto. Il duro colpo inferto a Hezbollah ha gravemente compromesso questo bastione.
Teheran ha di fronte a sé alcune opzioni. Innanzitutto, un confronto diretto con Israele, soluzione particolarmente rischiosa e a cui non è preparata, anche militarmente. Il regime può inoltre accelerare la corsa all’arma nucleare, da cui non è lontano, per ristabilire una deterrenza ora gravemente compromessa. Ciò, tuttavia, espone l’Iran a seri rischi di una azione israeliana preventiva. Teheran potrebbe anche tentare di porre le basi per una, per ora improbabile, ripresa del dialogo con l’Occidente. Questa scelta rappresenterebbe però una confessione di debolezza e sarebbe osteggiata da ampie componenti del regime. È pur vero che la Repubblica Islamica ha serie preoccupazioni di breve termine: il mantenimento della stabilità interna malgrado le difficoltà politiche; una seria crisi economica, causata in buona parte dalle sanzioni; la crescente disaffezione verso il regime; la preparazione di una successione senza scosse alla Guida suprema Khamenei, vecchio e malato. Sono ragioni che suggeriscono all’Iran prudenza tattica per evitare possibili shock esterni in una fase particolarmente delicata. Ciò non esclude una reazione alle operazioni israeliane in Libano: essa potrebbe essere affidata a Hezbollah o a ciò che ne resta, o ad azioni dimostrative iraniane, ma sotto la soglia del rischio di una dirompente reazione israeliana. Resta il fatto che gli obiettivi strategici iraniani sono per ora indeboliti: gli Stati Uniti hanno rafforzato la propria presenza militare in Medio Oriente; Israele è più minacciosa, anche se sconta un isolamento crescente; le aspirazioni di Teheran a una leadership regionale sono al momento ridimensionate.
Infine, i Paesi arabi sunniti. Essi condividono con Israele la minaccia esistenziale del tentativo di egemonia iraniana e l’interesse a evitarla. Questo spiega in buona parte la inconfessata soddisfazione di vari governi sunniti per l’uccisione di Nasrallah e le manifestazioni di giubilo in vari Paesi dell’area, dovute solo in parte alle accese dinamiche Sunna – Shi’a.
Al di là dei vari e complessi interessi politici e strategici in gioco, non bisogna però dimenticare che la priorità oggi è determinata dagli aspetti umanitari della situazione a Gaza e in Libano. Su questo piano la comunità internazionale dovrà agire con la massima urgenza.