WILLIAM KLEIN au Musée d’art contemporain
3 Novembre 2024Di cosa parliamo quando parliamo d’America
3 Novembre 2024di fabio Deotto
Il 9 gennaio 1868, sulle pagine del settimanale «The Nation», lo scrittore e veterano John William De Forest pubblicò un articolo in cui auspicava l’emergere di un’opera capace di «ritrarre l’essenza e lo spirito americani nella cornice di un romanzo». Un Grande Romanzo Americano (Gra), insomma, che fornisse una dimensione immersiva in cui il lettore potesse provare a rimettere insieme i cocci lasciati dalla guerra civile.
Non era poi un’intuizione così visionaria, eppure molti la presero sul serio: negli anni successivi il Gra diventò il traguardo letterario elusivo per eccellenza, una chimera che ha attraversato 150 anni di storia letteraria, sopravvivendo alle bordate del minimalismo e del post-modernismo, tanto che ancora oggi è al centro di annunci e polemiche.
Non sono sicuro che gli Usa post-guerra civile avessero bisogno di un Grande Romanzo Americano per trovare un collante nazionale, così come non sono sicuro che l’Italia post-unità avesse bisogno di un Grande Romanzo Italiano. Una cosa di cui sono piuttosto convinto, però, è che i tempi siano maturi per un romanzo-mondo sulla falsariga di quello immaginato da De Forest, un’opera spogliata di ogni afflato patriottico, che invece di concentrarsi sull’essenza di una nazione si misuri con una minaccia esistenziale globale. Siamo nel mezzo di una crisi trasversale, che trova nel cambiamento climatico un moltiplicatore comune, ma fatichiamo a ricondurre tutti questi pezzi sotto la stessa cornice. E allora, più che di un Grande Romanzo Americano, forse abbiamo bisogno di un Grande Romanzo Climatico (Grc) che, sfruttando le opportunità immersive proprie della letteratura, ci aiuti a comporre un mosaico altrimenti troppo complesso da interpretare. Ecco, se un romanzo del genere può esistere, è probabile che Stephen Markley ne abbia appena scritto uno. Il prossimo 12 novembre uscirà in Italia per Einaudi Stile libero Diluvio, una monumentale opera polifonica che copre un arco di ventisette anni, dal 2013 al 2040, e che in molti hanno tentato di etichettare come distopia o fantascienza post-apocalittica. Il che è curioso, considerando che, a quanto pare, quelli che in patria lo stanno apprezzando di meno sono proprio i lettori di genere.
In effetti la prima cosa che si nota, entrando in questo massiccio edificio narrativo di 1.300 pagine, è che non assomigli affatto ai romanzi di climate fiction a cui siamo abituati, questo perché Markley ha intuito una cosa fondamentale, e cioè che non si può davvero raccontare il collasso standoci in mezzo, così come non si potrebbe descrivere l’aspetto di una balena risvegliandosi dentro la sua pancia. La crisi climatica non è più una prospettiva futura, la stiamo già attraversando, e anche se ci risulta inafferrabile nella sua interezza di iperoggetto, la percepiamo sempre più intimamente, anche se spesso a un livello pre-conscio: nella sensazione che la normalità su cui abbiamo imparato a sederci sia ormai illusoria, nel disorientamento che ci coglie nell’affacciarci all’estate con una nuova forma di paura, nell’ansia senza contorni che sviluppiamo vedendo che quelle che un tempo erano alluvioni epocali ora sono diventate ordinaria amministrazione. Markley sa che l’unica cosa davvero visibile della crisi climatica sono le sue ricadute distinte, perciò invece di provare a incorniciare l’abisso, si concentra su quello che gli sta attorno, ne trova una misura tracciandone il perimetro.
Seduti sul bordo di questo abisso troviamo sette personaggi: un climatologo bersagliato dai negazionisti, una geniale attivista che ha trovato il modo di mescolare le carte bipartisan della politica statunitense, un tossicodipendente che finisce nell’orbita dell’estremismo, un’esperta di marketing prestata all’industria fossile, un attore di serie B che si ricicla come leader populista di un movimento teocratico, un’ecoterrorista specializzata nella distruzione di infrastrutture fossili e un matematico neurodivergente che lavora per il governo.
Difficile immaginare che un romanzo simile non ricada negli stilemi di genere, eppure a Diluvio l’etichetta di climate fiction risulta stretta, un po’ come qualsiasi etichetta di genere risulterebbe riduttiva per opere come Furore o Moby-Dick.
C’è un momento, nella seconda parte del libro, in cui il climatologo Tony Pietrus partecipa al World Economic Forum di Davos, dove si trova a fronteggiare chi ancora insiste che le misure di mitigazione non debbano ostacolare troppo la crescita economica. Qui si apre una scena che conosciamo bene: lo scienziato perde la pazienza, distribuisce insulti a pioggia, la sua tirata diventa virale online e gli si ritorce contro. Nelle pagine seguenti, però, una volta che Pietrus torna nella quotidianità domestica, il collasso globale passa in secondo piano, e d’un tratto non è più un climatologo ossessionato dalla fine del mondo, è un essere umano con priorità comuni a molti: il suo conflitto di personaggio non riguarda direttamente la crisi climatica, semmai il rapporto con le figlie che ha cresciuto da solo dopo la morte della moglie. Le questioni umane e relazionali, che in un romanzo di genere potevano essere accessorie, qui sono il centro della narrazione. Questo in parte spiega perché molti tradizionali lettori di climate fiction abbandonino il libro dopo qualche capitolo: questa storia non parla della crisi climatica, parla di sette personaggi che ci vivono in mezzo, e che vorrebbero tantissimo non doversene occupare.
Così facendo, Markley dribbla una trappola in cui molti ancora cascano: preoccupandosi troppo di restituire le dinamiche di questo macro-fenomeno si rischia di perdere di vista il fatto che un romanzo, grande o piccolo, climatico o americano che sia, è prima di tutto una storia, ossia una situazione conflittuale messa in movimento da inclinazioni e iniziative dei personaggi.
Ne Il sussurro del mondo, per dire, Richard Powers aveva imboccato una strada ambiziosa: spostare il baricentro della narrazione dall’essere umano alle piante, seguendo nove personaggi le cui storie gravitano attorno a specifici alberi. Powers ha messo tutta la sua sconfinata esperienza e abilità al servizio di questa storia, che non a caso nel 2019 ha vinto il Pulitzer per la narrativa, ma l’esperimento in ultima analisi non è riuscito: la scelta di comprimere un arco narrativo di due secoli in 600 pagine, per quanto concettualmente sensato (la vita delle piante ha tempi molto più lunghi di quella umana), rende più difficile al lettore mantenersi vicino ai singoli personaggi e accordare loro quell’investimento emotivo fondamentale per essere parte attiva della narrazione. Il punto è che per quanto possiamo volerci liberare dell’antropocentrismo, le storie sono un prodotto umano, e perché funzionino e risultino coinvolgenti il baricentro non può sganciarsi più di tanto dai percorsi dei singoli individui.
Un altro tentativo di Grc riuscito a metà è Il futuro di Naomi Alderman. Qui l’autrice inglese racconta di un futuro imminente in cui il collasso climatico è arrivato e i più ricchi e potenti si apprestano a rifugiarsi nelle loro isole bunker. In questo caso l’autrice si mantiene vicina ai personaggi, ma scivola in un’altra trappola tipica della fantascienza: dopo aver dedicato anni a una ricerca fitta e trasversale, che era fondamentale per confezionare un futuro realistico, la fa emergere di continuo in lunghe spiegazioni tecniche non richieste, tanto che a volte non sappiamo più se stiamo leggendo un romanzo o un saggio sulla crisi climatica. Una zavorra simile appesantisce anche Il ministero per il futuro di Kim Stanley Robinson, la cui storia si incardina su un astuto what if: cosa succederebbe se la comunità internazionale decidesse di istituire un organo che rappresenti le future generazioni di cittadini, trattandoli come se godessero degli stessi diritti di quelli presenti? Robinson ha voluto allontanarsi dalla forma del romanzo tradizionale, frammentando la prosa in tanti capitoli con approcci differenti, un pot-pourri stilistico in cui troviamo voci enciclopediche, appunti di lavoro, poemi in prosa, articoli di giornale, testimonianze di personaggi anonimi e lontani dal centro della narrazione. Se da un lato questa scelta restituisce il modo frammentato in cui leggiamo la realtà e la complessa stratificazione del problema climatico, dall’altro dirotta l’attenzione lontano dai personaggi.
Occorre ricordare che, nel tracciare la rotta per il Gra, De Forest insisteva sul valore unificante e inclusivo che ci si aspetta da un’opera del genere, sia a livello di tematiche affrontate che di pubblico potenziale. Avrei letto con lo stesso interesse Il sussurro del mondo se non mi interessasse nulla degli alberi e della fine dell’antropocentrismo? Avrei superato i lunghi passaggi esplicativi che invischiano la trama de Il futuro se non volessi saperne di più sulla crisi climatica? Avrei mai dato una chance a Il ministero per il futuro se non fossi abituato alla ricodifica richiesta dalla fantascienza più particolareggiata? Ho i miei seri dubbi.
Se l’obiettivo di un Grc è davvero mettere insieme i pezzi di una realtà frammentata, allora probabilmente dovrebbe mantenere il proprio baricentro nel presente, rinunciare agli stilemi di fantascienza, distopie e narrativa post-apocalittica, restituire un ventaglio di punti di vista il più possibile sfaccettato e inclusivo, infine dovrebbe avere un rapporto tra lunghezza ed estensione cronologica dell’arco narrativo tale da mantenerci vicini al punto di vista dei personaggi.
A proposito di lunghezza: siamo sicuri che un romanzo climatico di questo tipo debba anche essere «grande»? Dopotutto, se la crisi climatica è così interconnessa e stratificata, non avremmo invece bisogno di tante storie brevi, che prese insieme sovrappongano sguardi complementari, restituendo in modo olografico una complessità che supera ampiamente le nostre capacità cognitive? Forse sì. Ma c’è un altro aspetto da considerare. Se davvero stiamo attraversando un’apocalisse al rallentatore difficilmente riusciremo a trovare realistico (e genuinamente inquietante) uno scenario in cui la catastrofe ci viene servita già pronta. Per quanto spaventose possano risultare, le distopie forniscono una sorta di perverso conforto: la cesura con la realtà presente è così tangibile che ci viene facile, all’occorrenza, trovare un maniglione antipatico a cui aggrapparci per tornare alla nostra illusoria normalità. Markley, va detto, quella via di fuga la sbarra del tutto, e lo fa proprio approfittando del numero di pagine che ha a disposizione. Come la proverbiale rana nel pentolino, anche noi lettori veniamo cotti un decimo di grado alla volta, partendo da un tranquillizzante passato recente per arrivare al futuro prossimo solo dopo duecento pagine. Il risultato di questa lenta discesa nell’apocalisse è che quando ci avviciniamo al 2040, e la crisi climatica ci mostra il suo volto più terrificante, siamo talmente abituati ad abitare quel mondo narrativo che non troviamo più appigli per scappare. Ecco servita la magia del Grande Romanzo Climatico: sebbene la scienza ce lo dimostri da decenni, è grazie a un’immersione finzionale che ci rendiamo conto che la balena ci ha già inghiottito, e le fauci si sono quasi del tutto chiuse.
Alcuni anni fa, sulle pagine del «New York Times», Jennifer Szalai e Mohsin Hamid facevano notare come il Grande Romanzo Americano sia ormai più una fissazione che un concetto letterario, una bestia mitologica che ispira battute di caccia portate avanti quasi solamente da autori maschi e bianchi. In effetti, una critica che si potrebbe muovere a molti potenziali GRC, compreso quello di Markley, è di essere ancora troppo americani, mentre la crisi climatica è un problema globale, che richiede una molteplicità di sguardi complementari. Per questo credo che gli aspiranti rabdomanti del Grande Romanzo Climatico dovrebbero spostare le proprie bacchette verso il Sud-est asiatico, l’Africa occidentale, il Nordafrica, guardando ad autori per i quali la crisi climatica ha una declinazione diversa da quella osservabile da occidente. Se dovessi scommettere su potenziali candidati, a parte Amitav Ghosh, che sulla questione ha scritto un ottimo saggio (La grande cecità), punterei su Omar El Akkad e Vauhini Vara, ma anche su nomi solo apparentemente lontani dalla questione, come Viet Thanh Nguyen e Maaza Mengiste. Magari qualcuno di loro si è appena svegliato nella pancia della balena. Magari qualcuno di loro lo sta già scrivendo.
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