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Dall’Arte Povera fino al contemporaneo americano Le opere della Collezione Maramotti a Reggio Emilia offrono la chiave per riflettere sulle sfide dell’oggi
di Brunella Torresin REGGIO EMILIA
Nel 1864 il pittore Filippo Palizzi immaginò e dipinse la Terra riemersa dal diluvio universale in un quadro che intitolòOltre il Diluvio: dell’Arca si intravede solo la sommità alle spalle del monte Ararat, non vi è presenza umana (né segno divino), gli animali sono raffigurati con la precisione di un naturalista e la vivacità di un etologo. È anche il quadro che apre e conclude il percorso espositivo diAttraverso i diluvi,la mostra allestita fino al 16 febbraio 2025 alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia: un’indagine sui temi delle calamità naturali e dei disastri umani attraverso i lavori di oltre trenta artisti contemporanei e una selezione di opere d’arte antica che quei temi introducono e commentano in una prospettiva storica sia formale che di contenuto. È la testimonianza di una sensibilità – non esclusivamente di denuncia, bensì di contemplazione, pietas, turbamento, come avverte Sara Piccinini, dal 2021 direttrice e responsabile delle attività espositive – che accomuna gli artisti entrati a far parte della Collezione Maramotti nell’ultima dozzina d’anni e le cui opere vanno ora a svelarsi in una loro propria vena. La Collezione, con opere ineludibili della storia e della critica dall’Arte Povera fino all’ultimo orizzonte americano, è stata riunita da Achille Maramotti, il fondatore di Max Mara, in strettorapporto con Mario Diacono e Claudio Parmiggiani. Dopo la sua morte, nel 2005, sono i figli Luigi, Ignazio e Maria Ludovica ad averla aperta al pubblico, ad ampliarla e modularla nel solco del gusto del fondatore, sia con acquisizioni dirette, sia attraverso le mostre temporanee, tre all’anno, che la animano e con il Max Mara Art Prize for Women.
Nelle stesse date diAttraverso i diluvi l’edificio di via Fratelli Cervi che fu il primo stabilimento della casa di moda ospita anche la mostra della vincitrice dell’edizione 2024, Deadweight di Dominique White.
E ancora: dal 22 al 24 novembre, durante il festival “ Aperto” dei Teatri di Reggio Emilia, qui va in scena la performance della danzatrice e coreografa Anne Teresa De Keersmaeker.
Dal momento che le opere dei Diluvi provengono dalla Collezione e a essa rimandano, il linguaggio della pittura è predominante. Ma non esclusivo, tanto che ciascuna delle sale e dei rispettivi nuclei tematici – le catastrofi naturali, i soprusi dell’uomo sulla natura e gli animali, l’orrore della guerra, la malattia e la morte – hanno al centro una o più sculture. Ciò che rimane di forme di vita investite da forze estreme assume nei tre lavori del ciclo Ariel(2018) di Federico Tosi la fisionomia in cemento e pigmenti di creature fossili sottomarine o aliene e nelle cinque terrecotte di Miaoooooooo( 2021), la sequenza del corpo di un gatto disintegrato da un vento esplosivo. Creatura marina è anche laPinna nobilis di Giorgio Andreotta Calò, un bronzo del 2017 esposto accanto alle due valve dello stesso mollusco,naturalia del Seicento provenienti dai Musei Civici della città.
Nel lato interno di un guscio d’ottone, come un reperto riemerso da epoche remote, Nicolò Cecchella lascia intravedere il calco concavo del suo stesso volto (Testa, 2018- 2022). InPer costruzione di Oasi ( 1979) la palma concepita da Mario Schifano è rigogliosa ma di alluminio. Nel grande Fixator V (Centurio senex) in bronzo di Elisabetta Benassi il cranio ingigantito di un pipistrello, con i segni di un trauma violento, è trattenuto dai ferri di fusione al centro di una gabbia metallica collocata su un carrello di fonderia.
Sulle pareti prorompono i cromatismi e la narratività della pittura, tra paesaggi incendiati, furie d’acqua e detriti, cieli purpurei, arche spaziali di salvezza. Monica Bonvicini dipinge in bianco e nero, con tempera e vernice che colano lungo la superficie della carta, un’abitazione colpita dall’uragano (Irene 2011,2017). Seduta nell’occhio del ciclone, la figura semiumana ritratta da Mona Osman, al centro di uno scenario neoespressionista gremito di esseri e dimensioni multiple, sembra suggerire una forma di resistenza (Smoking in the Eye of the Tornado,2018). Nelle due straordinarie vedute
di Matthew Day Jackson, invece, nessuna presenza vivente è più visibile: Matterhorn Crumbling in Almagined Landscape (2023) è uno stratificato dipinto distopico, desertificato; August 6th, 1945 (2009), evoca nel titolo il giorno in cui fu sganciata l’atomica su Hiroshima e nel pattern la mappa di Dresda, bombardata nel febbraio dello stesso anno.
Esposto di fronte a tre Desastres de la guerra di Goya, Deutschland in der Nacht ( 1981), il libro d’artista di Anselm Kiefer, è aperto sulla pagina dell’incipit della Todesfuge di Paul Celan. Elif Uras dipinge in Redland( 2005) una scena di caccia dove le prede e i trofei sulle pareti non sono solo animali ma esseri umani.
Eppure forme di vita elementari, liriche ancorché minacciate, trovano spazio nel dittico di Beatrice Pediconi (Gaea Diptych # 1,2018). E nel suo grande Dome ( 1992) Ross Blekner intreccia le coordinate spaziali e sensoriali di un altrove di fragili equilibri. L’ultima sala della mostra è quella che Sara Piccinini descrive come un luogo di riflessione, abitato da enigmatiche opere notturne: è un congedo affidato al cosmo di Federico Tosi (L. A. Confidential,2018), al Limite ( 1987) di vetro e catrame di Massimo Antonaci, al fascio di luci multicolori cui conduce il cupo viale devastato di Jules de Balincourt (Blind Faith and Tunnel Vision,2005).