‘Fandom has toxified the world’: Watchmen author Alan Moore on superheroes, Comicsgate and Trump
10 Novembre 2024Daphne, che paura
10 Novembre 2024
di Andrea Fanti
Il suggestivo palazzo ottocentesco della Bourse de Commerce di Parigi, restaurato e trasformato dall’architetto giapponese Tadao Ando nel 2020, ospita un evento notevole dal titolo Arte Povera (fino al 20 gennaio). La mostra curata da Carolyn Christov-Bakargiev, già direttrice del Museo d’Arte contemporanea Castello di Rivoli, continuatrice del prezioso lavoro di Ida Gianelli, propone una «collettiva dinamica», con i tredici protagonisti dell’omonimo movimento artistico, nato in Italia alla fine degli anni Sessanta e diffuso in tutto il mondo, che ha influenzato profondamente la storia dell’arte.
L’evento si avvale di una cinquantina di capolavori della collezione Pinault e circa duecento opere prestate da importanti istituzioni e collezioni private. Il critico d’arte Germano Celant (1940-2020) è il teorico e fondatore del movimento che con l’articolo Appunti per una guerriglia su Fash Art n° 5 (novembre-dicembre 1967), ne dichiarò ufficialmente la nascita un paio di mesi dopo avere realizzato la mostra Arte Povera Im – Spazio, alla Galleria La Bertesca di Genova, fondata da Francesco Masnata e Nicola Trentalance all’epoca venticinquenni. Il fattore età non è affatto secondario. Esponevano: Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali ed Emilio Prini; successivamente si affiancheranno altri talentuosi artisti, diversissimi per linguaggio e tecniche, un manipolo di coraggiosi sperimentatori, col comune intento di innovare, che per Germano Celant significava creare un meccanismo per contestare il sistema artistico contemporaneo.
Secondo la sua visione, questo movimento nasce dalla necessità di creare un’arte libera, capace di una dimensione progettuale che disorienta. Ecco allora che lo spazio dell’immagine non è più contenitore, ma diventa, per citare il teorico, «un ampio campo di forze visuali-ambientali», in definitiva un modo diverso di concepire l’arte contemporanea.
Nelle opere questi artisti si esprimono con una molteplicità di linguaggi, utilizzano la pietra e l’acqua, il fuoco e la brina, le parole e il pensiero. La ricerca estetica su tutto ciò che riguarda il mondo primario coinvolge anche il mondo vegetale e quello animale. Di fatto, questo movimento composto da artisti che non rinunciano alla propria identità, al proprio lessico, non può essere semplificato considerando solo i materiali utilizzati: infatti nelle intenzioni di Celant la valenza politica è molto forte, e rispecchia la vivacità culturale di quegli anni, nei quali la protesta esprimeva un bisogno di cambiamento e di rottura netta nei confronti della cultura dominante.
La ricchezza degli scambi artistici e culturali di quegli anni; le contaminazioni tra teatro, cinema, letteratura; le azioni dal vivo apriranno orizzonti impensabili fino ad allora. Pier Paolo Calzolari nello Spazio Bentivoglio a Bologna realizza la sofisticata opera-performance Il filtro e Benvenuto all’angelo (1966-1967), coinvolgendo gli spettatori nella partecipazione diretta; Michelangelo Pistoletto darà vita con cineasti, musicisti, poeti e attori a Lo Zoo (1968), un teatro in piazza che si dipana tra le strade di diverse città (da Amalfi a Vernazza) coinvolgendo il pubblico. Questi esperimenti arricchiscono le palette degli artisti, lasciando qualcosa di indelebile.
L’evento di Parigi, nello spazio esterno antistante l’ingresso, espone un monumentale albero in bronzo di Giuseppe Penone gravido di grosse pietre ovali (Idee di pietra, 2010); lì accanto, la grande vela bianca di Mario Merz (da Numeri di Fibonacci, 1984-2024) sembra invitare a un viaggio alla (ri)scoperta di territori inusuali; a terra tre blocchi di ghiaccio di Pier Paolo Calzolari ( da Casa ideale, 1968-2024 ), nel loro lento atto di svanire, sono una manifestazione del declino temporale, un dispositivo performativo in movimento.
All’interno del palazzo, nella Rotonda centrale, sormontata da un immenso lucernario, il visitatore è accolto da diverse installazioni dei protagonisti dell’Arte Povera che condividono lo stesso spazio. Sono opere emblematiche che rispecchiano lo spirito collettivo del movimento: forme apparentemente semplici rivendicano attraverso la negazione della serialità l’atto estremo di rottura. È questa una citazione del «Deposito d’Arte Presente» di Torino, ideato dal gallerista Gian Enzo Sperone tra il 1967 e il 1968, un luogo cruciale dove si teorizzava l’arte come qualcosa di contagioso.
Le vetrine settecentesche, posizionate nel «passaggio» che circonda il cuore del museo, ospitano documenti, immagini, libri e oggetti che contestualizzano il periodo storico. Sono inoltre esposte opere della generazione precedente, di anticipatori come Alberto Burri, Asger Jorn, Pinot Gallizio, Carla Accardi, Lucio Fontana, Piero Manzoni e altri.
Le gallerie che si sviluppano dal piano terra al secondo piano e al seminterrato sono dedicate ai tredici artisti e seguono un ritmo narrativo molto equilibrato: è una scelta ricca che regala una panoramica puntuale sul movimento. A volte si eccede nella quantità, rivelando una sorta di indecisione dovuta forse a un horror vacui nel timore di trascurare qualcosa.
Il presupposto di questa mostra e l’attualità del movimento emergono dall’esigenza di recuperare la consapevolezza tattile rispetto al nostro presente evanescente e virtuale: ecco un motivo valido per riscoprire il valore della materia semplice, della sua manipolazione e del fascino che esercita. Un’occasione per godere di opere provenienti da collezioni private difficilmente fruibili. La proposta della curatrice, ottima nelle intenzioni, non riesce però a ricreare il clima magico: la straordinarietà del periodo e l’eccezionalità delle opere d’arte a volte appare appannata. L’esposizione nel complesso risulta un distaccato reportage su quei formidabili protagonisti e l’idea di proporre, a complemento, alcuni artisti di una cosiddetta post-Arte Povera, oltre a distrarre crea confusione.