L’Âge atomique, l’arte rompe il guscio della materia, l’occhio è nudo
24 Novembre 2024Pierangelo Bertoli-A Muso Duro
24 Novembre 2024
Guido e gli altri. L’età d’oro in cui a Bologna danzavano pittura e poesia. Una mostra e una gran Pinacoteca
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Volevamo che ci spiegassero a cosa serviva la poesia nella vita, e ai giovani non vanno spiegati i misteri delle rime, ma quelli dell’anima. Noi non volevamo solo recitare poesie. Noi volevamo vivere”. Ci sono città, o per meglio dire ci sono momenti di città, così rari e così incredibili che sembrano appartenere a una favola più che alla storia. Momenti, ad esempio, in cui la società dei poeti vivi, degli artisti, sembra prendere il sopravvento su tutto il resto. In cui una comunità di artisti e poeti sembra vivere per sé e solo di sé, coltivando il mondo puro della bellezza e di una corrispondenza di segreti sensi. Una città che però, in quelle parole-manifesto, non è Bologna, ma è la Mosca rivoluzionaria degli anni Venti: quella in cui un giovane futuro poderoso scrittore dalla vita drammatica, Varlam Šalamov, frequenta i grandi reading di poesia, Majakovskij e gli altri, che radunano pubblico da teatri pieni, operai e studenti, tra litigi, dibattiti e ragion politica. Lo racconta nei taccuini raccolti in Tra le bestie la più feroce è l’uomo, appena editi da Adelphi. Difficile immaginare una città più lontana dalla Mosca di Lenin della Bologna papalina del primo Seicento. Eppure in quel momento, un momento di città, Bologna è il luogo in cui una cerchia eletta, un piccolo mondo raffinato di pittori e poeti, di cavalieri e committenti, fece della ricerca del bello, dell’analogia tra l’immagine dipinta e la parola poetica – ecfrasi la chiamano gli eruditi, la descrizione verbale di un’opera d’arte visiva – il fulcro della loro vita, della vita culturale e di una produzione artistica con pochi uguali.
Bologna capitale minore del regno dei Papi, mentre Roma è al massimo del suo fulgore barocco. Non così distanti, in verità. Andavano e venivano i Papi – Papa Boncompagni nel Cinquecento e ora, è il 1621, Papa Ludovisi, protagonista con Guercino di un’altra mostra romana e bolognese in corso alle Scuderie del Quirinale. E con Papi e cardinali andavano e venivano pittori e letterati. Una comunità elettiva. Nel palazzo di via di Monte Giordano, a pochi passi dal ponte che porta a San Pietro, un cardinale di vent’anni, Maurizio di Savoia, aveva radunato un suo circolo, l’Accademia dei Desiosi, nei primi anni del decennio. Attorno alla breve vicenda di questa sua accademia danzano i personaggi di un favola pittorica, raddoppiati come in un gioco di specchi, che oggi (e fino al 16 febbraio) sono protagonisti di una eccellente mostra, non grande mapiena di idee, “La favola di Atalanta. Guido Reni e i poeti”, alla Pinacoteca Nazionale di Bologna.
A fare da titolo sono due grandi tele, identiche per soggetto ed esecuzione, due versioni di
Atalanta e Ippomene di Guido Reni (una è ora a Capodimonte a Napoli, l’altra è conservata al Prado di Madrid). Due riconosciuti capolavori. Il soggetto, non immediato per i lettori d’oggi, è tratto dalle Metamorfosi, dai versi che Ovidio aveva dedicato alla fanciulla Atalanta. Cresciuta da cacciatori, non vuole farsi prendere al laccio da un marito e lancia allora una sfida ai pretendenti: sposerò solo chi riuscirà a battermi in una gara di corsa. Ma l’innamorato Ippomene adotta uno stratagemma: fa cadere lungo il percorso delle mele d’oro, Atalanta ne è distratta, si china a raccoglierle e Ippomene vince la gara. Un episodio da cultori di mitologia, che aveva affascinato il Marino dell’Adone che in pochi versi –quelli che spiccano fra i due quadri nel bell’allestimento color ottanio, il colore cool per l’arte del momento – sembrano guidare la mano di Reni o esserne la fedele recensione. Il pittore coglie i due giovani nell’attimo del sorpasso, l’aria attorno quasi si muove, i piedi per un istante si incrociano. La sfida d’amore tra Atalanta e Ippomene ebbe molta fortuna nel Seicento. Secondo le studiose ecuratrici della mostra, la specialista di Reni e docente della Sapienza Raffaella Morselli e la giovane storica dell’arte Giulia Iseppi (a completare il trio c’è Maria Luisa Pacelli, fino a poche settimane fa ottima direttrice della Pinacoteca e ideatrice della mostra), il legame tra le due opere gemelle è in un piccolo mistero. Nell’Accademia dei Desiosi l’immagine di Atalanta era una sorta di passe-partout, di codice esoterico tra i nobili adepti. Personaggi certo di alto lignaggio, pari al cardinale di Savoia, che nei loro palazzi hanno dove esporre tele extralarge come le Atalante di Reni. Che dunque sono più di due: una terza è stata individuata da Morselli in una collezione privata, ma altre potrebbero esserci o potrebbero essere esistite, preziosissimi attestati di appartenenza all’esclusiva accademia dacché Guido Reni in quegli anni a Roma era nel numero dei pittori più celebrati. Pittura e poesia. In mostra sono riprodotti i versi dell’Adone: “Per l’arringo mortal, nova Atalanta
/ l’anima peregrina, e semplicetta, / corre veloce”, prima di farsi ingannare “con l’oggetto piacevole e giocondo / di questo pomo d’or, che nome ha mondo”. E’ il mondo come scena di un gioco, come quinta filosofica che fa riflettere sulla bellezza e la caducità il tema di queste accademie che uniscono in intenti e sentimenti poeti come Marino, pittori come Reni, Agostino e Ludovico Carracci, Lavinia Fontana (sua una Giuditta con la testa di Oloferne, tema tornato di gran moda nei nostri MeToo) o Artemisia Gentileschi. Il gioco sottile tra immagini e parole alla base di questa mostra permette di scoprire la vivacità del panorama artistico bolognese. Nella bella sala ipogea degli Incamminati i dipinti dei maggiori pittori dell’epoca si intrecciano come se tra loro proseguisse un gioco di sguardi e di bon mots tra amici, in un giardino d’accademia. Molti versi (si possono ascoltare fermandosi sotto le “docce sonore”) sono dediche che esprimono questo mondo ideale: “Pittura e poesia suore, e compagne, / che quei, che è Gran Pittor, è gran Poeta”, scrive Cesare Rinaldi per il Funerale di Agostin Caraccio. Del resto è lo stesso Agostino che aveva dipinto il Ritratto di Cesare Rinaldi nel suo studio. Così c’è il bellissimo Ritratto di cavaliere dell’ordine dei santi Maurizio e Lazzaro (l’ordine di casa Savoia) di Artemisia Gentileschi: forse si tratta di un altro dei protagonisti dell’elitario giro, Andrea Barbazza. Ma il senatore Barbazza, poeta a sua volta e nobile, era anche uno dei più stretti collaboratori di Guido Reni, il suo agente diremmo oggi. “Esperto di arti cavalleresche, richiestissimo come giudice di giostre e tornei, la sua militanza nelle principali accademie cittadine e forestiere, dai Gelati di Bologna, agli Umoristi e i Fantastici di Roma, agli Incogniti di Venezia” ne faceva un uomo di rapporti fondamentali nella società artistica del suo tempo. Giulia Iseppi, esperta delle fortune e delle dispersioni americane dei pittori bolognesi, ha ritrovato nella biblioteca dell’Hard Random Center di Austin un manoscritto, mai pubblicato, in cui Barbazza aveva raccolto tutte le sue poesie dedicate ai quadri dei suoi amati amici pittori. La penna al servizio della tavolozza. Un caso esemplare è quello della Strage degli innocenti, un capolavoro di Reni e un must della Pinacoteca, dipinto per la chiesa di San Domenico. Per Marino è il contrasto perfetto tra “orrore e diletto”, ne scrive una descrizione poetica destinata a farne la fortuna. Ma la quantità di raccolte poetiche dedicate al pittore (le Lodi al Signor Guido Reni, il Trionfo del Pennello) fu un fatto straordinario già all’epoca, tale da renderlo uno dei pittori più celebrati del Seicento. E un convegno scientifico dedicato in Pinacoteca nei giorni scorsi a Carlo Cesare Malvasia, il “Vasari di Bologna” autore della Felsina Pittrice. Vite dei pittori bolognesi è un ulteriore tassello della riscoperta di una tradizione viva.
Questo era il momento della città, la seconda capitale dei Papi ma tutt’altro che seconda, fiorente, con una sua scuola di pittura affermata, l’università, i circoli eruditi di scienziati. Bologna vive la sua favola, un momento della città in cui l’arte diventa centrale, per quanto non rivoluzionaria: non è la Mosca degli anni Venti. Rinaldi e Barbazza, Reni e i Carracci non volevano certo ribaltarlo, il loro mondo. Per loro arte e vita imitano la poesia, e la poesia dà spunto all’arte. La scelta felice dell’allestimento, luci soffuse, percorso circolare, una bella sezione didattica come non sempre si vede in queste occasioni aiutano ad avvicinarsi alla pittura elegante, non sempre diretta, di Reni e dei suoi contemporanei. Così, come in andamento a chiocciola, dalla mostra attorno alle Atalante la curiosità si sposta alla Bologna del Seicento, alle sue accademie (l’Insegna dell’Accademia dei Gelati che apre la mostra è deliziosa), alla scoperta di uno scrigno d’arte e crocevia d’Italia. Qui del resto un secolo prima ha lasciato il segno Raffaello, con l’Estasi di Santa Cecilia, altro must della Pinacoteca. Ma hanno lasciato il segno anche il passaggio di Paolo Veronese e due secoli prima Giotto, venuto a dipingere fin qui. Se c’è un ulteriore valore di questa mostra, che vale un invito, è che illumina la storia artistica ben rappresentata dalla Pinacoteca Nazionale. Una Pinacoteca che ha ricominciato a respirare in questi ultimi anni, grazie al lavoro tenace e innovativo di Maria Luisa Pacelli. Che, come doverosamente ha ricordato in catalogo il direttore generale dei Musei, Massimo Osanna, “in questi anni ha promosso una serie di iniziative ed eventi dedicati allo straordinario patrimonio custodito nelle sue sedi. Attraverso mostre, convegni e incontri, il museo si è affermato… anche come un luogo che offre esperienze di conoscenza e approfondimento per un pubblico ampio e diversificato”. Come spiega infatti l’ormai ex direttrice: “Anche in questo caso lo sviluppo del progetto espositivo è stata l’occasione per una riflessione sul percorso del museo dedicato alle opere di Guido e a quelle dei suoi contemporanei, tanto che dopo l’evento è in programma il riallestimento di questa sezione”. Un lavoro passo passo, valorizzando il patrimonio e sfruttandolo come occasione per ripensare
“La favola di Atalanta. Guido
Reni e i poeti”, alla Pinacoteca
Nazionale di Bologna. Sulla tela l’aria attorno ai giovani quasi si muove
Poi c’è la “Strage degli innocenti”.
Per Marino è il contrasto perfetto tra “orroreediletto”,nedàunadescrizione poetica destinata a farne la fortuna Una Pinacoteca che ha ricominciato a respirare in questi ultimi anni, grazie al lavoro tenace e innovativo di Maria Luisa Pacelli Una mostra “incentrata sullo studio del patrimonio del museo, coniugandorigorescientificoecapacità di parlare a pubblici eterogenei” un museo rimasto troppo a lungo laterale. Non è questo il senso delle riforme che hanno reso autonomi (più o meno) i musei pubblici? Fondata nel Settecento su quel che era un convento gesuita, la Pinacoteca ha sezioni uniche come il cinquecento bolognese (i Carracci, Domenichino) e il seicento (Reni e Guercino). Ma non è solo questo, ricchissima è la collezione d’arte medievale, dominata dal polittico di Giotto, una Madonna col Bambino in trono e una delle più vaste raccolte nazionali di affreschi trecenteschi staccati, tra cui quelli della chiesa di Mezzaratta. E’ la ricca pittura del Trecento bolognese valorizzata da Francesco Arcangeli, grande storico dell’arte e antesignano della riscoperta emiliana, cui è dedicato un percorso specifico. Una coesione stilistica e territoriale unica, che da Vitale da Bologna a Simone de’ Crocifissi al Settecento di Giuseppe Maria Crespi sembra non perdere mai il filo del legame con questa terra. Del resto la Pinacoteca, esattamente come quella di Brera, nasce come museo dell’Accademia di Belle arti, con uno scopo didattico e non solo d’accumulo. Uno di quei gioielli di cui l’Italia è piena e che tende spesso a non valorizzare. La Pinacoteca negli anni Sessanta aveva avuto una sistemazione dell’architetto Leone Pancaldi, allievo di Scarpa, secondo i dettami museali di allora. Divenuta autonoma nel 2020, sotto la guida di Maria Luisa Pacelli ha cominciato una trasformazione necessaria. La mostra odierna era il passo propedeutico anche per mettere mano alla valorizzazione (non facile, tecnicamente) del grande patrimonio del genius loci. Del resto la crescente celebrazione di Reni è in corso da tempo, a lui sono state dedicate importanti mostre allo Städel Museum di Francoforte, alla Galleria Borghese di Roma e al Museo del Prado. Una valorizzazione che il lavoro bolognese perfeziona, con l’attenzione posta sul mondo intellettuale attivo in quegli anni, nel culto di bellezza e meraviglie. Ci sono molti modi e molti stili per immaginare una mostra, all’interno di una istituzione pubblica, e uno dei più intelligenti è di valorizzare il patrimonio a disposizione, farne un volano. “Come per le altre mostre sotto la mia direzione, anche questa è incentrata sullo studio del patrimonio del museo, coniugando rigore scientifico e capacità di parlare a pubblici eterogenei, bisognava riportare la Pinacoteca nel vivo e nel centro della città”, non si stanca di ripetere, camminando per le stanze, Maria Luisa Pacelli. Tra le idee che hanno portato, in soli quattro anni, il museo a quintuplicare i visitatori c’è ad esempio quella di invitare i docenti di storia dell’arte della vicina università e accademia a fare lezione in Pinacoteca, a contatto con le opere; un’altra è stata attivare un rapporto virtuoso con il sistema delle associazioni, delle fondazioni di un città notoriamente vivace. Quello che un buon museo autonomo deve fare. Peccato che non sempre la politica riesca aessere coerente nemmeno con i suoi proclami. C’era un “chiaro rammarico” nella presentazione della mostra fatta dalla ex direttrice Pacelli: quella di non poter portare a termine, con un nuovo mandato, il lavoro iniziato. Per via di un improvvido accorpamento di funzioni, cui non s’è rimediato, determinato dalla caotica riforma Sangiuliano. I musei pubblici non dovrebbero perdere per strada i loro migliori professionisti e collaboratori. Ora Pacelli andrà a dirigere l’Accademia Carrara a Bergamo, che è un gran bel museo privato. La aspettano i capolavori di un’altra città scrigno.