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24 Novembre 2024
di Vando Cioli
La Valdorcia, la mia Valdorcia, terra ora bramata da tutto il mondo, dicono che sia luogo di lunga longevità. La sua campagna è bellissima e variegata, con prodotti gastronomici eccellenti, ed i suoi paesi sono ricchi di storia, patrimonio dell’Unesco.
I miei ricordi della Valdorcia iniziano nel 1954, a tre anni di età, quando, con i miei genitori ed i miei due fratelli più grandi di me, abitavamo in un podere composto da più nuclei familiari, che faceva parte dell’azienda “La Foce” dei marchesi Origo, che comprendeva 57 poderi. A quell’epoca il podere comprendeva un terreno e la casa abitata dalle famiglie che lo coltivavano. I nuclei familiari appartenenti al podere, erano composti da fratelli e sorelle, con i rispettivi coniugi e figli. I contadini cambiavano podere, non spesso, ma comunque ogni qualvolta trovavano una situazione migliore, sia come produttività che come locazione ed alloggio.
Poiché i vari nuclei familiari del podere dove io abitavo erano diventata troppo numerosi, il terreno non poteva più assicurare il sostentamento di tutti.
Fu allora che il mio babbo, in buona armonia con i suoi fratelli, decise di spostarsi in un altro podere nelle vicinanze. Il trasloco fu fatto con un carro trainato da buoi e comprendeva pochissime cose: due letti e poco più. Andammo in un altro piccolo podere nei presi di Gallina. Il nuovo podere era abbastanza piccolo, ma, ospitando solo la mia famiglia, era per noi sufficiente. Dopo circa due anni, per motivi che non ricordo, ci trasferimmo in un piccolo agglomerato nei pressi della torre di Spedaletto. Era l’anno 1956, ricordato per la grande nevicata. Ho pochissimi ricordi, a parte l’inusuale, grande quantità di neve, che costrinse i contadini a costruire una sorta di spazzaneve artigianale, trainato da buoi, che avrebbe dato possibilità di spostarsi sia a piedi che con gli scarsi mezzi di trasporto disponibili all’epoca, essenzialmente biciclette e motorini (che noi non avevamo). Grazie alla costruzione di uno spazzaneve, fu anche possibile spostare il bestiame verso le fonti d’acqua.
Alle fine di quell’anno accadde un fatto funesto: una mia cugina, bambina di 11 anni, avendo smarrito i suoi maiali, presa dall’ansia dalla preoccupazione della perdita, si addentrò nella campagna per la ricerca. Calata la sera, la bambina non aveva fatto ritorno a casa. Cominciarono quindi le ricerche da parte dei contadini appartenenti alla sua e alle altre famiglie. Ricordo che la notte le colline erano illuminate quasi a giorno dalle numerose fiaccole. Fu ritrovata, affogata in una fonte, dove era scivolata per il terreno fangoso. Dopo la sua morte, mia mamma mise una foto della bambina in bella vista a casa, come ricordo. Anni dopo, ho saputo che quella stessa foto era stata fatta dopo che era morta, non avendone altre da mettere nella lapide. La foto mostrava la bambina in piedi, legata ad un palo per non farla cadere.
Dopo poco, cambiammo un altro podere, sempre nei pressi di Gallina, dove il mio babbo trovò una situazione abitativa e lavorativa, migliore per tutti noi. Nel frattempo noi figli eravamo cresciuti, cominciando a diventare utili per i piccoli lavori, come accudire i maiali e portare acqua e vino ai mietitori nei campi. Ricordo che c’era un solo bicchiere per tutti gli uomini.
La mietitura era fatta a mano, con la falce. I mietitori lavoravano in ginocchio; ricordo che quasi sempre si sfidavano ad essere più bravi e più veloci degli altri.
La sera, dopo una cena consumata nel campo, raccoglievano le manne mietute, che in Valdorcia erano dette “balsi”, facendo piccoli “mucchioli”. Successivamente le manne erano portate nell’aia, raccogliendole in una grande “mucchia” e quindi trebbiate.
Nei piccoli lavori di noi ragazzi, c’era anche l’accudimento dei maiali che comprendeva il portarli a pascolare nei campi e, nei tempi giusti, il raccoglimento della ghianda. La ghianda serviva non solo per nutrirli ma anche per ingrassare il maiale che poi veniva ucciso, ricavandone carne e salumi per circa 1 anno.
Intanto, anche per me venne l’età per andare a scuola. In tutta verità, ci fui mandato un po’ prima del tempo in quanto i miei genitori, impegnati nel lavoro nei campi, non potevano tenermi a casa. Con i miei fratelli partivamo molto presto la mattina attraversando strade che, a seconda della stagione, erano fangose o polverose. Tramite una passarella fatta da sassi molto grossi, chiamati in Vadorcia “gonzi”, dovevamo attraversare un fiume, dove qualche volta cadevamo. Quando il fiume era in piena, dovevamo percorrere un tragitto più lungo per trovare un ponte.
Arrivato l’inverno del 1957, mio babbo si ammalò, con febbre altissima. Fu portato all’ospedale di Montalcino. Dopo un mese circa, la febbre era sempre alta. Il primario dell’ospedale, Professor Pallini, sentendosi impotente di fronte al persistere della febbre, consigliò alla mia mamma, di rivolgersi allo stregone del paese, detto “il barba”, dicendoli di portarsi dietro un indumento del babbo. E così fece. Dopo i riti “di routine” il barba disse a mia mamma di tornare all’ospedale mettendo l’indumento al malato; questo sarebbe servito a guarirlo.
Nel frattempo, il professor Pallini una sera, rivolgendosi a mio babbo, gli disse che l’ultima speranza era un farmaco nuovo, dicendoli che all’indomani gli avrebbero iniettato il farmaco stesso (forse erano i primi antibiotici). O per lo stregone, o per il farmaco (più probabile), mio babbo dopo poche ore cominciò a sfebbrare, venendo dimesso dall’ospedale di li a breve.
A questo punto c’era il problema di riportarlo a casa, tanto più che Il babbo era molto debilitato e si era in pieno inverno. Infatti, non c’erano strade percorribili con auto e moto, quindi l’ambulanza si sarebbe dovuta fermare molto prima di arrivare a casa nostra. Mi ricordo che il giorno prima della dimissione fu allestito un carro agricolo trainato da buoi, ricco di paglia nel pianale e ricoperto di coperte fissate alle sponde, come a costruire una carrozzeria al carro stesso. Arrivò il giorno tanto atteso del ritorno. Il carro ad ora prestabilita, lentamente, attraverso le strade fangose, arrivò laddove l’ambulanza, una 600 Fiat familiare adibita per questa funzione, non poteva più procedere. Per l’occasione noi figli ci eravamo lavati con più attenzione e pettinati in rispetto al babbo che tornava a casa dopo molto tempo. Mio babbo si rimise, ma non si seppe mai quale delle due “cure” aveva avuto effetto.
Come testimoniato dal racconto sopracitato, il podere dove abitavamo era mal raggiungibile soprattutto in inverno, però dalla frazione di Gallina ci passava la strada statale Cassia che, unendo Firenze a Roma, era abbastanza trafficata e per questo c’erano due bar: uno si chiamava “Il Capitani” che faceva anche ristorante, l’altro, “Sesto” piccolo bar-trattoria. Proprio in questi bar ho potuto assaggiare le mie prime cioccolate, che all’interno dell’incartamento contenevano delle piccole medaglie raffiguranti ciclisti e piloti automobilistici.
Una volta all’anno veniva organizzata una festa patronale. Per noi bambini era un momento, oltre che divertente, anche emozionante, potendo vedere cose a noi prima sconosciute: saltimbanchi, giocolieri e mangiafuoco. C’erano poi banchi con dolciumi, vestiario e prodotti per la casa.
Mi ricordo di aver visto passare l’ultima millemiglia, un avvenimento esaltante ed emozionante per tutte le persone che, per l’occasione, lasciavano i poderi per assistere al passaggio delle auto, commentando con meraviglia.
Altro avvenimento molto aspettato era il Giro di italia. Oltre che per la visione dei ciclisti, il “Giro” era aspettato da grandi e piccini perché dalla carovana che precedeva e seguiva i corridori, venivano lanciati cappellini, borracce, caramelle e cioccolate.
La “Cassia” rappresentava quindi per tutto noi un tuffo nella modernità, in un mondo per noi sconosciuto.
Intanto, nell’Ottobre del 1957, cambiammo di nuovo podere, andando al podere “Sorbelle”, vicino al castello di Spedaletto, una grancia appartenuta all’ospedale Santa Maria della Scala di Siena. Il podere era in una zona pianeggiante, con terreno ben coltivabile, e vicino a strade, seppur bianche, percorribili con auto e moto. Tuttavia, anche questo podere mancava di luce ed acqua.
Nonostante il nuovo podere fosse a 4-5 Km dal precedente, dovemmo cambiare scuola. A quel tempo infatti nelle campagne c’erano tante piccole scuole. La sera prima del primo giorno di scuola, mio babbo mi fece imparare a memoria i miei dati demografici per permettere al maestro di registrarmi nel registro di classe. Il maestro era Lino Volpi. Il ricordo di lui è ancora molto vivo. Arrivava con una vespa Piaggio e d’inverno aveva sempre un trench con cintura in vita e con in testa un Chiribiri, una sorta di basco come portavano i preti. La scuola di Spedaletto era all’ultimo piano del nucleo centrale del castello. Oltre ai vai banchi di legno e la cattedra, spiccava una stufa di terracotta ed una vetrinetta; non ricordo cosa la vetrinetta contenesse, a parte un proiettore per diapositive. Di quest’ultime ricordo molto bene i viaggi di Gulliver.
Riguardo alla stufa di terracotta, veniva accesa in inverno solitamente da me e dal mio fratello più grande, in quanto la custode della scuola era la nostra mamma. La mamma infatti, per racimolare più soldi aveva preso l’impegno di pulire la scuola il pomeriggio. Dal momento che avrebbe dovuto lasciare il lavoro al podere, spesso lasciava quest’incombenza a me ed al mio fratello.
Tra gli alunni mi ricordo di una coppia fratello e sorella, che venivano da un podere abbastanza lontano rispetto alla scuola, e talvolta portavano un tegamino per cuocersi le uova sopra la stufa di terracotta.
Spesso il maestro Volpi ci portava quaderni, pennini ed altre cose che ci servivano per la scuola. In particolare, si appuntava su un blocco notes con una copertina nera, quello che mancava ad ogni scolaro, e glielo faceva quindi avere. Una mattina, mentre facevamo lezione, sentimmo uno strano rumore, l’aula si abbuio ed il lucernario si coprì di rena. Poi sapemmo da mio babbo che la che la causa furono due operai che, spalando la breccia nel letto di un fiume situato a circa 1 Km dalla scuola, innescarono una mina anti-uomo, messa lì dai tedeschi durante la ritirata nella seconda guerra mondiale. Dopo alcuni anni, vennero squadre di artificieri per bonificare tutto il letto del fiume.
Come già detto, il nuovo podere dove abitavamo ora era vicino a strade percorribili, quindi era possibile avere più contatti. Mi ricordo dei Treccoloni, cioè botteghe racchiuse in piccoli furgoncini. I Treccoloni vendevano di tutto, dai primi detersivi, a accessori per cucire ad alimenti. Nello stesso tempo compravano ferri vecchi, che noi chiamavamo “ferraccio”, alluminio e pelle di coniglio.
Durante la trebbiatura, arrivava “Barzaglino” con un’ape che conteneva una specie di frigorifero con all’interno bibite: birra, aranciata e forse altro. Gli addetti alla trebbiatura gli si facevano incontro per gustare le ambite bibite. La trebbiatura in quel periodo era una festa, essendo il frutto di un faticoso e fruttuoso anno di lavoro. Si stava in maniera conviviale tra amici e conoscenti, e non era difficile che nascessero amori che esitavano in un fidanzamento. Erano anche momenti di grandi pranzi e cene nell’aia, con menù sempre lo stesso: il locio (papera) in umido e pasta con sugo fatto con carne dello stesso locio. Il locio infatti, essendo un animale molto grande, veniva allevato quasi per questa occasione. Talvolta, sempre nell’aia, qualcuno la sera portava la fisarmonica e si ballava.
Noi ragazzi, durante la giornata, oltre che portare da bere ai trebbiatori, con l’avvento della pressa (nuovo meccanismo per pressare la paglia), dovevamo preparare i fili per legare le suddette presse o balle di paglia.
L’ultimo raccolto era il granturco; dopo che era stato fatto asciugare, a fine Ottobre i contadini si raccoglievano al caldo delle stalle per fare la sfogliatura del granturco, facendo delle reste con le spighe. Si trattava di un altro momento di aggregazione, con racconti di tutti i generi, risate e sfottò.
Un’ulteriore circostanza di aggregazione durante l’inverno, erano le feste da ballo all’interno delle case. Quando in una famiglia c’era un figlio o una figlia in età da fidanzamento, per carnevale e per le feste di Natale, veniva organizzata una veglia, con fisarmonicista che di solito stava seduto su una sedia posta al di sopra di una madia, che con la sua musica intratteneva e faceva ballare.
Ad una certa ora la famiglia ospitante offriva salumi, dolce e vino per una cenetta a tarda notte. Talvolta, dei ragazzi arrivavano all’improvviso cercando di rovinare la festa , non essendo stati invitati; se si comportavano in modo corretto, venivano invitati a restare, altrimenti mandati via in malo modo.
Un altro ricordo molto vivido, è rappresentato dai bagni a Bagno Vignoni. Più che andare a fare il bagno, ci andavamo a lavarci nel vero senso della parola. Andavamo in vespa: il babbo alla guida, io davanti tra le sue gambe e i miei due fratelli dietro. Lungo i gorelli di acqua solfurea e calda e sotto le cascatelle che pochi anni prima servivano per azionare i mulini, trovavamo molte persone con asciugamani e sapone.
L’energia elettrica c’era solo a Spedaletto e nei poderi che costeggiavano la linea di corrente elettrica che da Pienza andava a Spedaletto. Grazie a questo arrivò anche la televisione, posizionata nella parrocchia. Don Pietro l’aveva sistemata in una stanza al piano terra e nell’occasione di trasmissioni popolari (“Lascia e Raddoppia”, “Il Musichiere” e “festival di San Remo”) tutta la famiglia ed i vicini partivamo per andare a vederle. Portavamo le sedie da casa. Noi ragazzini ovviamente aspettavamo “Il Carosello”, gli uomini “Il Telegiornale” e le donne le trasmissioni successive per commentare i vestiti e le acconciature delle signore che apparivano nello schermo. Tutti insieme rientravamo quindi a casa, con commenti sui programmi; essendo notte non mancavano i racconti sui lupi mannari per spaventare noi bambini.
La televisione andavamo a guardarla quasi esclusivamente in inverno, dato che da Aprile a Ottobre le famiglie erano impegnate a tempo pieno nella cura dei campi. Quando rientravamo in casa, essendo quindi inverno e molto freddo, la mamma metteva “il fuoco” nel letto: si chiamava “Prete” che teneva all’interno la “pretina”, un piccolo secchio con la brace.
Arrivati vicini al natale, io ed il mio babbo andavamo al fiume Orcia per cercare un ginepro per fare l’albero di natale. L’albero lo addobbavamo con puntale e palle di natale di vetro, aggiungendo personaggi di cioccolata rincartata comprata dai “Treccoloni”. Avevamo anche alcuni personaggi per fare il presepe, a cui pensavamo noi ragazzi. Con i vicini andavamo a cercare la Carpia: così veniva chiamata la borraccina in Val D’Orcia. Il presepe veniva fatto in un piccolo angolo della cucina.
La sera di natale andavamo tutti alla messa di mezzanotte, servita da bambini vestiti con una tonachina bianca. Il giorno di natale era uso in tutte le famiglie, far trovare la letterina di natale scritta dai bambini sotto il piatto del babbo. Il contenuto della lettera non erano richieste di qualcosa, ma promesse di studiare e di essere utili alla famiglia. Seguiva poi un pranzo differente da tutti gli altri, con nel finale dolci tipici della zona senese (cavallucci, panforte e ricciarelli).
Nei giorni che precedevano il natale, immancabilmente, in più giorni ed in case diverse, alcune famiglie si riunivano per giocare il panforte, un dolce rotondo con spessore di circa 3 cm, rincartato con una carta lucida e decorata. Venivano formate due squadre, poi un componente per volta lanciava il panforte sul tavolo e faceva punto chi si avvicinava il più possibile al bordo opposto del tavolo o addirittura chi faceva capanna. Fare capanna significava che il panforte rimaneva in bilico. Se il panforte usciva dal tavolo il tiro era nullo. Alla fine del gioco il panforte veniva diviso in spicchi per quante persone erano presenti, e chi perdeva veniva deriso.
Le donne solitamente non partecipavano e rimanevano intorno al caminetto a fare la calza per confezionare golf e calze.
Quando arrivavamo alla Pasqua, giorni prima veniva acceso il forno comune dei poderi del piccolo agglomerato, per fare dolci pasquali: ciambelle, schiacciate e ciambelloni. La mattina di Pasqua era tradizione in tutte le famiglie, fare colazione con l’uovo benedetto alla messa di mezzanotte e con il capocollo. Era davvero un rito in Val D’orcia, con tutta la famiglia seduta a tavola.
Sempre nei giorni che precedevano la Pasqua, Don Pietro convocava me ed un altro ragazzino per assisterlo alla benedizione delle case nei poderi. Ci faceva salire nella sua lambretta. Era uso da parte dei contadini, regalare al prete formaggio, uova , salsicce, denari e altro. Dove le famiglie erano note per essere più generose, Don Pietro si raccomandava con noi affinché tutto il rito della benedizione fosse più accurato possibile; diversamente, ci raccomandava di essere molto svelti.
Durante la primavera, quasi ogni Domenica, gli uomini si ritrovavano per giocare alla “Druzzola” lungo le strade bianche. La Druzzola, era una rotella di legno, una sorta di disco, che veniva lanciata avvolgendola con vari giri di un lungo spago, a sua volta fissato al dito medio della mano. Venivano fatte due squadre, facendo un lancio per uno a chi arrivava prima ad un traguardo prefissato, talvolta a diversi chilometri d distanza. Immancabilmente c’era il vino. In questo modo trascorrevano le domeniche, tra giochi, scherni e sane bevute. Da Maggio, iniziando i raccolti, ci sarebbe stato molto meno tempo per giocare.
Intano, arrivati ai rimi anni ’60, le campagne iniziavano a spopolarsi, con il miraggio di andare a lavorare nelle varie industrie sorte nelle città e nelle zone a forte sviluppo economico. Iniziava la modernità, attraente soprattutto per i giovani. Anche la mia famiglia, come tante altre, abbandonò la campagna per andare ad abitare a San Quirico D’Orcia, lasciando il lavoro agricolo ed abbracciando l’epoca moderna.