mentre l’insopportabile contabilità dei femminicidi, anche questa settimana, si amplia con l’ennesimo episodio (ha confessato un marito a Cagliari), alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne arriva in libreria un volume che sin dal titolo afferma l’innovativo punto di vista: L’autodifesa delle donne. Pratiche, diritto, immaginari nella storia.
Curato per Viella da Simona Feci e Laura Schettini, raccoglie tredici saggi che esplorano la capacità di reazione a una violenza o molestia, ricordano quanto culturalmente essa sia stata frenata, spiegano come giuridicamente venga valutata e con quali risultati. Il respiro è ampio, geograficamente, temporalmente e per quel che riguarda temi e personaggi. Alcuni contributi affondano lo sguardo nella storia (come per le donne in fuga dalla Repubblica Cisalpina, l’autodifesa delle suffragette in Gran Bretagna, la memoria delle vittime nella guerra in Grecia), altri ci portano nella contemporaneità (ad esempio con l’azione artistica di Niki de Saint Phalle contro il patriarcato, i processi per stupro, l’esperienza del gruppo Wendo in Germania).
Ne emerge una ricognizione che offre molti elementi di riflessione, benché l’aspetto culturale sia forse quello più centrale. Come scrivono le curatrici nell’introduzione, l’identificazione delle donne con il “sesso debole” è antica, e si sostanzia «nei trattati scientifici, nel diritto e nelle fonti religiose» per continuare «a essere veicolata e rinnovata nel pensiero medico, nei testi giuridici, nella letteratura e nel linguaggio politico attraverso l’età moderna e contemporanea, fino a sopravvivere ancora in alcuni dizionari odierni». Questo ha determinato «la costruzione giuridica e scientifica dell’inferiorità e della subalternità femminili in famiglia e nella società» e anche chiamato in causa «il tema dell’autodifesa, dal momento che su questo piano si è poggiata storicamente la rappresentazione delle donne come soggetti inadatti e impossibilitati a difendersi (e a difendere) dalla violenza». Il che, avvertono Feci e Schettini, non vuol dire che non ci siano state evoluzioni e cambiamenti, ma spesso le storie e le protagoniste che ne dimostrerebbero la portata «sono state oggetto di un’accurata opera di invisibilizzazione, depotenziamento o derisione, che si è allungata nel tempo». Non solo, è accaduto anche che le reazioni delle vittime spesso siano state ascritte alla dimensione di irrazionalità, anomalia, squilibrio cui le donne spesso sono condannate – e tali rappresentate nelle fiction o nelle cronache – anziché alla necessità di difendersi. Un doppio marchio, culturalmente radicato, di cui ancora oggi si fatica a sbarazzarsi.
Libri come questo sono importanti, sia a livello conoscitivo che di acquisizione di consapevolezza di certi meccanismi, e dovrebbero circolare in ben più vasti circuiti non solo accademici. Si realizza una volta di più che le suffragette non solo pagarono un prezzo alto per la loro battaglia per il voto (clamorosa la repressione delle 300 attiviste in marcia verso il Parlamento inglese, il 18 novembre 1910, picchiate selvaggiamente e aggredite sessualmente), ma misero in piedi anche un sistema di protezione basato sul ju-jitzu, arte marziale giapponese che incontrò una popolarità e un consenso tali – grazie all’istruttrice e militante Edith Garrud – da inaugurare il Suffragette Self-Defense Club, il primo gruppo femminista di autodifesa.
Quasi settant’anni dopo, in Italia, sarà lo slancio delle manifestazioni «Riprendiamoci la notte» (la prima a Roma, il 27 novembre 1976), a guidare i movimenti femministi che individuano nel buio notturno il momento emblematico dell’insicurezza e delle violenze vissute dalle donne. La protesta, ricostruita con passione da Lorenza Moretti, è la risposta a casi di aggressione specifici, ma investe anche la sfera dell’intimità, della famiglia, del privato come dimostrano gli striscioni “Di giorno angeli del focolare, di notte oggetti da violentare”, “La nostra lotta è per riprenderci la vita”. Dopo Roma, sarà la volta di Milano, Torino, Mestre, Padova. A ondate, queste manifestazioni si ripeteranno negli anni, con l’idea che “le strade sicure le facciamo noi che le attraversiamo”. La violenza qui denunciata non è, infatti, «solo quella sessuale, che avvenga nelle strade o nelle case», ricorda l’autrice «ma anche quella che passa per la limitazione della propria libertà di movimento, per l’imposizione di un ruolo e per tutte le sfaccettate forme di sfruttamento e svalutazione a cui si può essere sottoposte».
Interessanti sono le pagine del volume dedicate all’ambito giudiziario. L’avvocata Ilaria Boiano si sofferma sul principio di legittima difesa, esamina alcuni casi che rendono la complessità di risvolti e situazioni, e mostra come, anche in situazioni in cui apparentemente “giustizia è fatta”, il rischio di una parzialità di genere sia in agguato. Accade ad esempio con la “sindrome della donna maltrattata”: il riferimento è alla decisione della Corte Suprema canadese che nel 1990, nel terzo grado di giudizio, assolve Angelique Lyn Lavallée.
Ventidue anni, vittima di ripetute violenze da parte del convivente, dopo l’ennesima brutale aggressione lo aveva ucciso con un colpo alla nuca perché era nella condizione di battered woman (donna maltrattata) e dunque il suo era stato – nelle parole dei giudici – «l’ultimo atto disperato di chi credeva sinceramente che sarebbe stata uccisa quella notte». Ma questa motivazione, osserva l’autrice, si fonda sullo stato patologico nel quale verserebbero le donne schiacciate da un regime di terrore, mentre una vittima che invoca la legittima difesa deve poterlo fare partendo «dalla ragionevolezza delle sue azioni nel contesto delle sue esperienze personali, non sul suo status di donna maltrattata» (che potrebbe peraltro inficiare la responsabilità genitoriale sui figli).
Simona Feci e Laura Schettini (a cura di)
L’autodifesa delle donne. Pratiche, diritto, immaginari nella storia
Viella