Anatomie d’une chute
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29 Novembre 2024Emile Bernard nei suoi Ricordi su Paul Cézanne ci dice che l’artista non aveva il tempo di dedicarsi ad altro che non fosse la pittura. «Fino ai quaranta anni» gli confessa Cézanne, «ho vissuto come un bohémien, sciupando tutta la mia vita. È stato solo più tardi, quando ho conosciuto Pissarro, così infaticabile, che mi è venuto il gusto del lavoro».
Quando, giunto ad Aix da Marsiglia nel febbraio del 1904 con l’intento di conoscere Cézanne, Bernard lo incontra per la prima volta, il pittore, pur con ferma gentilezza, gli dice: «Andavo a lavorare», e accetta tuttavia, eccezionalmente, che Bernard lo accompagni fuori città, fino a una collinetta dove, egli ricorda, «apparve una casa, la cui facciata era sormontata da un frontone greco. ‘Qui è il mio studio’, mi disse Cézanne con una certa aria di mistero. ‘All’infuori di me, non c’entra mai nessuno’». Bernard ci dà la viva immagine di un pittore tutto concentrato sulla sua arte, occupato esclusivamente dalla sua ricerca e applicato costantemente a perseguire un raggiungimento nel realizzarla che lo possa finalmente soddisfare. Ma nessun esito sembra esaudire a sufficienza il suo proposito.
Sempre gli pare manchi qualcosa che possa dare compiutezza all’opera e sempre il tentativo successivo, che pure viene regolarmente posto in atto, risulta ancora una volta all’occhio di Cézanne, esaminato col giudizio d’una valutazione rigorosa, difettivo, carente, incompiuto. Bernard rileva come quel «gusto del lavoro» che Cézanne aveva appreso da Pissarro si era accampato in lui «con tale intensità, che aveva scavato sotto di lui all’improvviso, una voragine in cui si era inabissato». Così gli appare avvolto da uno spesso manto di misantropia, chiuso in un suo silenzio ove solo la voce della pittura risuona, esclusi dall’artista altri rapporti e scambi ed anche impossibilitato a onorare pur gli affetti più forti: «Quando c’era stato il funerale di sua madre, non aveva potuto seguire il feretro, perché, quel giorno, doveva andare al motivo (ovvero andare in campagna a dipingere); e dire che nessuno l’amava e l’aveva pianta più di lui», scrive Bernard.
Honoré de Balzac pubblica nel 1832 il racconto Il capolavoro sconosciuto, destinato a godere subito d’una grande fortuna ed a suscitare immediatamente vivo interesse e appassionate discussioni nel mondo degli artisti parigini. Immagina un pittore, Frenhofer, che da dieci anni lavora ad un dipinto che, ne è convinto, gli darà imperitura gloria. Frenhofer è impegnato a raffigurare una avvenente cortigiana di perfetta bellezza chiamata La belle Noiseuse. Nessuno ha mai visto la tela alla quale il celebre pittore attende, infaticabile e in segreto, in una stanza inaccessibile della sua abitazione. Forse una modella di impareggiabile bellezza potrebbe fornire al maestro una soluzione ai suoi continui dilemmi, forse servirebbe a sciogliere d’un tratto ogni incertezza e dar compimento definitivo e assoluto al capolavoro.
Avviene che un giovane pittore, nel quale Balzac immagina Nicolas Poussin, proponga al vecchio maestro di mettere in posa Gillette, la sua amata. Davanti alla bellezza di Gillette, Frenhofer riesce a dar compiutezza all’opera. E la mostra a Poussin e al pittore Porbus. Essi vi scorgono solamente, racconta Balzac, «un ammasso confuso di colori delimitati da una quantità di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura». E, «in un angolo della tela, la punta d’un piede nudo che sbucava da quel caos di colori, tonalità, sfumature indecise, simile a una nebbia informe: ma un piede delizioso, un piede vivo!». La loro delusione getterà Fernhofer nel più cupo sconforto: «L’indomani Porbus, preoccupato tornò a cercare Frenhofer, e seppe ch’era morto quella notte, dopo aver bruciato le sue tele».
Riportando gli argomenti delle conversazioni intrattenute con Cézanne, Bernard rammenta che un giorno, a un desinare, il discorso cadde su Il capolavoro sconosciuto e sulla figura di Frenhofer. Scrive che Cézanne, allora, «si alzò dalla tavola, mi si piantò davanti, e battendosi l’indice sul petto, si accusò ripetutamente con quel gesto, come a dire che Frenhofer era lui. Si commosse al punto che le lacrime gli riempivano gli occhi».
Emile Bernard nei suoi Ricordi su Paul Cézanne ci dice che l’artista non aveva il tempo di dedicarsi ad altro che non fosse la pittura. «Fino ai quaranta anni» gli confessa Cézanne, «ho vissuto come un bohémien, sciupando tutta la mia vita. È stato solo più tardi, quando ho conosciuto Pissarro, così infaticabile, che mi è venuto il gusto del lavoro».
Quando, giunto ad Aix da Marsiglia nel febbraio del 1904 con l’intento di conoscere Cézanne, Bernard lo incontra per la prima volta, il pittore, pur con ferma gentilezza, gli dice: «Andavo a lavorare», e accetta tuttavia, eccezionalmente, che Bernard lo accompagni fuori città, fino a una collinetta dove, egli ricorda, «apparve una casa, la cui facciata era sormontata da un frontone greco. ‘Qui è il mio studio’, mi disse Cézanne con una certa aria di mistero. ‘All’infuori di me, non c’entra mai nessuno’». Bernard ci dà la viva immagine di un pittore tutto concentrato sulla sua arte, occupato esclusivamente dalla sua ricerca e applicato costantemente a perseguire un raggiungimento nel realizzarla che lo possa finalmente soddisfare. Ma nessun esito sembra esaudire a sufficienza il suo proposito.
Sempre gli pare manchi qualcosa che possa dare compiutezza all’opera e sempre il tentativo successivo, che pure viene regolarmente posto in atto, risulta ancora una volta all’occhio di Cézanne, esaminato col giudizio d’una valutazione rigorosa, difettivo, carente, incompiuto. Bernard rileva come quel «gusto del lavoro» che Cézanne aveva appreso da Pissarro si era accampato in lui «con tale intensità, che aveva scavato sotto di lui all’improvviso, una voragine in cui si era inabissato». Così gli appare avvolto da uno spesso manto di misantropia, chiuso in un suo silenzio ove solo la voce della pittura risuona, esclusi dall’artista altri rapporti e scambi ed anche impossibilitato a onorare pur gli affetti più forti: «Quando c’era stato il funerale di sua madre, non aveva potuto seguire il feretro, perché, quel giorno, doveva andare al motivo (ovvero andare in campagna a dipingere); e dire che nessuno l’amava e l’aveva pianta più di lui», scrive Bernard.
Honoré de Balzac pubblica nel 1832 il racconto Il capolavoro sconosciuto, destinato a godere subito d’una grande fortuna ed a suscitare immediatamente vivo interesse e appassionate discussioni nel mondo degli artisti parigini. Immagina un pittore, Frenhofer, che da dieci anni lavora ad un dipinto che, ne è convinto, gli darà imperitura gloria. Frenhofer è impegnato a raffigurare una avvenente cortigiana di perfetta bellezza chiamata La belle Noiseuse. Nessuno ha mai visto la tela alla quale il celebre pittore attende, infaticabile e in segreto, in una stanza inaccessibile della sua abitazione. Forse una modella di impareggiabile bellezza potrebbe fornire al maestro una soluzione ai suoi continui dilemmi, forse servirebbe a sciogliere d’un tratto ogni incertezza e dar compimento definitivo e assoluto al capolavoro.
Avviene che un giovane pittore, nel quale Balzac immagina Nicolas Poussin, proponga al vecchio maestro di mettere in posa Gillette, la sua amata. Davanti alla bellezza di Gillette, Frenhofer riesce a dar compiutezza all’opera. E la mostra a Poussin e al pittore Porbus. Essi vi scorgono solamente, racconta Balzac, «un ammasso confuso di colori delimitati da una quantità di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura». E, «in un angolo della tela, la punta d’un piede nudo che sbucava da quel caos di colori, tonalità, sfumature indecise, simile a una nebbia informe: ma un piede delizioso, un piede vivo!». La loro delusione getterà Fernhofer nel più cupo sconforto: «L’indomani Porbus, preoccupato tornò a cercare Frenhofer, e seppe ch’era morto quella notte, dopo aver bruciato le sue tele».
Riportando gli argomenti delle conversazioni intrattenute con Cézanne, Bernard rammenta che un giorno, a un desinare, il discorso cadde su Il capolavoro sconosciuto e sulla figura di Frenhofer. Scrive che Cézanne, allora, «si alzò dalla tavola, mi si piantò davanti, e battendosi l’indice sul petto, si accusò ripetutamente con quel gesto, come a dire che Frenhofer era lui. Si commosse al punto che le lacrime gli riempivano gli occhi».