Aubrey Beardsley, illustratore vittoriano morto a venticinque anni, scrisse un romanzo, l’unico, dedicato all’eroe wagneriano
di Daria Galateria
Dio è femmina e i suoi accoliti, tra cipria, nei e giarrettiere, hanno lo smalto ambiguo di ermafroditi. Il cavaliere Tannhäuser approda titubante nel regno sotterraneo della sola vera divinità, Venere: unicamente preoccupato che la cavalcata non abbia sgualcito i pizzi della cravatta. La storia di Venere e Tannhäuser,romanzo postumo ( 1907) dell’immenso illustratore Aubrey Beardsley, non riprende la vicenda canonica ( cara a Wagner) del bardo cristiano che rinuncia ai piaceri, si redime, vede a Roma il Papa, si converte. Beardsley, in piena età vittoriana, si attiene a liturgie veneree, piccanti, sontuose e squisite come le sue pitture; Tannhäuser in apertura dice subito « Addio, adieu » , alla Venere celeste e alla Madonna e se Maria nel racconto compare è per involarsi, affettuosamente abbracciata a Santa Rosa de Lima.
È questo — che compare da WoM edizioni, in una sapiente edizione filologica curata da Matteo Pinna e allietata da un nugolo di illustrazioni a tema dall’opera di Beardsley — l’unico suo romanzo; del resto, è morto a 25 anni. Da due generazioni i suoi, tubercolotici, lavoravano solo a tratti — il padre, magari in rosticceria: e aveva anche dovuto vendere i suoi beni in un processo per rottura di promessa di matrimonio. Aubrey visse perciò la giovinezza in povertà, e era così emaciato da essere bello come una sua illustrazione, con il profilo da cicogna e le lunghissime mani da zampe d’uccello; i capelli neri come china, tondi, tagliati in mezzo da una riga: una testa di monaco che preannunciava la (tarda) conversione. Era stato subito unico, e sicuro del suo genio; a scuola di disegno, aveva retto tre mesi; poi aveva iniziato la sua carriera, che aveva illuminato in bianco e nero — agglutinando nelle volute liberty il lezioso Settecento, la concitazione barocca, l’Oriente e le cerimoniosità giapponesi — i vivacissimi anni Novanta dell’Ottocento inglese. Editori e redattori delle riviste di culto gli levavano qua e là un genitale, o aggiungevano una foglia; e lo licenziarono quando ci fu lo scandalo di Oscar Wilde, processato per sodomia. Aubrey fu tra quelli che allora lo evitarono, incontrandolo per strada — «quel ragazzo!», scrisse Wilde, senza vero rancore: « l’ho creato io! » . Un po’ eravero, gli aveva chiesto di illustrare la sua Salomé, che la sorella di Aubrey recitava a teatro; le sedici stampe avevano consacrato il pittore, e lui, sempre impertinente, aveva rappresentato il grasso Erode con gli occhi di Wilde, e perfino Erodiade, la madre di Salomé, con le imponenti forme della madre dello scrittore, Lady Wilde.
Intanto, lavorando forsennatamente, ma senza parere — non ne parlava, e nascondeva i suoi strumenti appena qualcuno entrava in studio — illustrava Aristofane e Pope ( immagini qui dunque fastosamente riprese) e, raramente, scriveva: non incoraggiato dagli amici. Così, La storia di Venere e Tannhäuser uscì postuma, prima racconto su rivista e poi nel 1907 romanzo erotico comunque incompiuto: ma ci si può felicitare che la versione di Beardsley si fermi all’interno del Venusberg, il regno sotterraneo del monte di Venere, e che si sia attenuta alla prima delle due intenzioni iscritte nella leggenda. Il racconto potevainfatti esprimere la nostalgia del paganesimo e dei suoi dei esiliati dal cristianesimo, ovvero enunciare la versione della croce trionfante: le interpretazioni di Heine, Wagner, Baudelaire, Pater, Swinburne evocate nel profondo e divertito saggio di Matteo Pinna.
Il romanzo di Beardsley è l’opera di un pittore. Il suo Tannhäuser è un dandy, di indolente e sontuosa apparenza; «voglia il Cielo che io sia rassicurato da uno specchio prima di apparire », è la sua unica preghiera; quando si accoppia con Venere, è « alquanto sollevato » quando irrompono nella stanza, dopo un’ora, i giovani cortigiani, per pretenderla; e lo lasciamo, nell’ultimo capitolo composto, il X, a una piccola cena — una partie carrée — «vestito da donna e bello come una dea». Anche Venere è seria nella vestizione; quando al mattino sul vassoio d’argento le presentano le pantofole (calzari di camoscio grigi, pelli di capretto profumate, fibbie e tacchi ingemmati, fiocchi, piume, velluto, taffetà e satin rosa) sceglie, meditabonda, un paio di babbucce già dismesse; nel suo seguito un adoratore sottrae una pantofola e, armeggiando un po’, «la calza sul pene».
Alle cene, al balletto, ai concerti trascorrono valletti a zoccolo di satiro, idrocefali mascherati, nani dispettosi, cavalieri infervorati, o rassegnati, per stanchezza, alla passività. Le dame portano deliziosi baffetti di porpora arricciati o barbe bianche, sventolando ventagli con fessure, per sbirciare. Sulle musiche (loStabat mater di Rossini, «deliziosamente démodé») Aubrey è sempre asseverativo — era così anche nella vita; qui ama fermarsi sulle calze e la boccuccia della cantatrice, un ambiguo contralto.
Indimenticabile una scena che è già nel racconto Sotto la collina, versione primigenia (1903) del romanzo: la visita mattutina della dea all’unicorno; solo dopo aver eccitato e lappato il suo punteruolo, nel regno della dea si può procedere alla colazione. Come nel rococò, la voluta sostituisce la linea, il procedere del tempo; il romanzo liberty di Beardsley ribadisce ininterrottamente, con spudorata impertinenza, la sua scelta della perdizione.