Con T.S. Eliot alla ricerca dell’ultimo dio
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8 Dicembre 2024Novecento francese Oggetto del corso datato 1977, la ricerca delle tracce culturali lasciate dai tentativi di conciliazione tra solitudine e comunità: «Come vivere insieme», da Mimesis
Nella sua ultima fase, Roland Barthes mostrò un interesse sempre crescente per le manifestazioni estreme della soggettività, per i rapporti fuori dalla norma e da ogni identificazione possibile. Tutto ciò che nelle forme di vita si dà a vedere come relazione tra singolarità, traccia di rapporti tra «unici» insostituibili ha acquisito per lui sempre più valore tematico. Chiamato a insegnare al Collège de France, dedicò il primo dei suoi frequentatissimi corsi, intitolato Come vivere insieme Simulazioni romanzesche di alcuni spazi quotidiani (introduzione, traduzione e cura di A. Ponzio, Mimesis,pp. 298, € 22,00) a un sondaggio del materiale storico e culturale, nella figurazione letteraria come nel campo della comunicazione di ogni giorno, relativo alla questione dei rapporti possibili tra solitudine soggettiva e legame sociale. Il corso, tenuto tra il gennaio e il maggio del 1977, interrogava le tracce documentali in cui si esprimono i tentativi di favorire una conciliazione tra vita individuale e vita collettiva, l’armonizzazione di indipendenza della persona e socialità – il coniugarsi di solitudine e comunità.
Facendo leva principalmente su testi di Daniel De Foe, André Gide, Thomas Mann, Marcel Proust, Émile Zola, ma anche valendosi con raffinatezza del pensiero di Bion, Lacan, Nietzsche (oltre che, come sempre, degli apporti di Benveniste e Lévi-Strauss) lo studioso che in quello stesso torno di tempo aveva prestato attenzione alle logiche duali caratteristiche del «discorso amoroso» non si indirizza ora né al campo dell’affettività di coppia, né all’ampiezza del complessivo orizzonte sociale. Le forme e soprattutto gli spazi del «vivere insieme» che Barthes adesso indaga sono piuttosto quelli tipici di certi gruppi ristretti (i cui primi modelli storici vengono individuati nel monachesimo orientale, anzitutto quello athonita) in cui la convivenza si coniuga alla libertà individuale, nel quadro della ricerca di una vera e propria «topica della distanza».
Le lezioni infatti lasciano ripetutamente risuonare questi interrogativi: quale distanza critica dagli altri occorrerebbe osservare per instaurare una solitudine che non sia isolamento, una relazionalità non tramata da elementi di alienazione? In che modo sono state immaginate, pensate, tentate forme comunitarie in cui i membri della compagine sono al tempo stesso soli e integrati, del tutto autonomi e però in costante relazione con gli altri? In cosa consiste questa immagine ideale – di volta in volta ostinata utopia collettiva e/o persistente fantasma personale – di una configurazione comune in cui il «vivere-insieme» sarebbe tale che ciascuno, nel rapporto con gli altri, conserverebbe il proprio giusto ritmo di esistenza?
Barthes individua nella congerie di inflessioni, abitudini, valori di questo precipuo modo del «vivere insieme» alcuni tratti pertinenti, includendoli ogni volta sotto una voce di riferimento, una sorta di «figura» in grado di condensare aspetti decisivi della questione e di favorire l’innesco della riflessione e la partecipazione personale dell’ascoltatore/lettore. Nei circa trenta «tratti» individuati (discussi in ordine alfabetico, a evitare sia intenti sistematici che predeterminazione di un senso complessivo: da Akedia a Autarchia, da Burocrazia a Capo, da Marginalità a Prossemica a Regola, e così via)Barthes, come sovente negli scritti e nelle lezioni degli anni Settanta, intreccia creatività e sapere, in una sintesi felice di esattezza documentaria e immaginazione critica, supportate da una discorsività sempre trasparente, pronta a tracciare percorsi imprevisti tra linguistica, letteratura, filosofia, storia delle religioni, etnologia.
La rassegna delle figure del «vivere insieme» individua tanto i luoghi forti quanto, soprattutto, l’impasse essenziale delle prassi comunitarie immaginate o attuate. Ne risulta, come sottotraccia, una sorta di decostruzione mirata del tema della comunità. Barthes finisce per sottintendere che il mancare della comunità, la sua impossibilità, indica che, se essa esiste, esiste solo nel modo dell’assenza, in quanto contraddizione in atto e come incitamento per il pensiero. Questa «negatività» dell’istanza comunitaria è a un tempo la sua verità più profonda e la possibile base di ogni «essere-insieme» autentico, come le consapevolezze antropologiche, insieme alle indicazioni psicoanalitiche, confermano con forza. Ecco allora che può delinearsi il compito decisivo di rinvenire mezzi inediti per delegittimare il presupposto fallace di una essenza individuale comune, per far fronte ai giochi equivoci delle assimilazioni immaginarie, per rispondere ai legami sociali iniqui. Ciò che Barthes offre lungo le sue lezioni è così anche il materiale per la costruzione di un’etica capace di tenersi lontana da ogni intimidazioneprescrittiva e di centrarsi invece su ciò che egli chiama, non senza provocazione, «delicatezza» («distanza e riguardo, assenza di peso nella relazione, e, tuttavia, calore vivo di questa relazione»), cioè sull’impegno di non strumentalizzare né manipolare l’altro: è questo il solo obbligo in grado di sospendere quel tratto deviante della ricerca comunitaria per cui essa può trasformarsi in servitù generalizzata e in misconoscimento delle differenze.