segue dalla prima Erdogan voleva rovesciare Assad sin dalle dispute sulle acque dell’Eufrate nell’anno 2000, considera Damasco nella naturale sfera d’influenza neo-ottomana attorno ai suoi confini e dimostra di saper usare con efficacia i propri proxies : milizie sunnite, più o meno jihadiste, riconducibili all’ideologia dell’Islam politico dei Fratelli musulmani di cui è espressione anche il partito Ak con cui domina la vita politica turca da quasi un quarto di secolo.
Ciò che colpisce è la disinvoltura con cui Erdogan ha spinto i ribelli sunniti a travolgere Assad sfidando a viso aperto la Russia di Vladimir Putin e l’Iran di Ali Khamenei — grandi protettori di Damasco — con cui condivide il fronte anti-Israele in Medio Oriente dall’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. A conferma che per Erdogan ciò che più conta sono gli interessi nazionali turchi.
Da qui la frase con cui Erdogan, partner della Nato, ha accompagnato tre giorni fa la rivolta dei ribelli di “Hayat Tahrir al-Sham”, un gruppo classificato come “terrorista” dagli Usa: «Il nostro desiderio è che la marcia in Siria continui senza intoppi». Per poi chiamare Putin e consigliargli di non preoccuparsi troppo perché a Damasco sarebbe stata presto «garantita la stabilità».
Questa è la genesi della cocente sconfitta subita da Teheran, obbligata a rinunciare alla pedina siriana cruciale per la costruzione dell’ambiziosa “Mezzaluna sciita” immaginata per controllare l’intera regione, dal Golfo Persico al Mediterraneo. La caduta di Assad si somma infatti ai pesanti colpi inferti da Israele a Hezbollah nel Libano del Sud e a Hamas a Gaza, con il risultato che ora l’arsenale di alleati di Teheran è assai indebolito, a esclusione degli Houthi in Yemen e delle milizie sciite Kataib Hezbollah in Iraq. Da qui l’ipotesi che Teheran possa reagire agli smacchi subiti decidendo di accelerare il programma nucleare per tenere in piedi il proprio disegno di egemonia regionale in chiave antiamericana.
In attesa di sapere quali saranno le mosse della Guida suprema della Rivoluzione iraniana, Ali Khamenei, e dei suoi fedelissimi Guardiani della rivoluzione possono però esserci pochi dubbi sul fatto che il successo di Erdogan preoccupa soprattutto una capitale: Riad.
L’Arabia Saudita guidata dal principe ereditario Mohammed bin Salman è infatti il Paese leader dell’Islam sunnita, custode delle moschee di Mecca e Medina, nonché la potenza economica che ambisce a diventare leader regionale trovando nell’America di Donald Trump l’interlocutore privilegiato per disegnare i nuovi equilibri in Medio Oriente. Ma il movimento dei Fratelli musulmani, a cui Ankara fa riferimento, è il nemico giurato dei sauditi: lo scontro è teologico e di potere, ha in palio la leadership dei sunniti — ovvero la maggioranza dei musulmani — e la rivalità fra Erdogan e Bin Salman si riflette nel sostegno a opposte milizie in ogni angolo del mondo arabo, a cominciare dalla Libia dove il primo arma le tribù di Tripoli e il secondo sostiene i clan del generale Haftar a Bengasi.
Ma non è tutto perché in questa nuova cornice siriana vi sono anche altre novità di rilievo. Le aperture di alcuni comandanti dell’Esercito libero siriano a Israele per creare “un patto anti-Iran” hanno ricevuto la risposta del premier Netanyahu che parla di «un nuovo giorno per il Medio Oriente» ma in realtà a Gerusalemme molti temono la presenza lungo i confini sul Golan di gruppi islamici di matrice jihadista, la cui aggressività non è certo minore rispetto a Hamas e Hezbollah. E poi c’è il Rojava, la regione del Nord-Est controllata dai peshmerga curdi già protagonista della resistenza anti-Assad e oggi alleata delle milizie druse nel Sud, creando uno schieramento potenzialmente filoccidentale che Erdogan considera fumo negli occhi. Ultimo, ma non certo per importanza, il fattore-Putin. Ovvero, per la prima volta dall’intervento militare in Siria, nel settembre 2015, Mosca registra uno smacco nello scacchiere del Mediterraneo del Sud. Evidenziato dai ribelli schierati a ridosso delle sue basi a Khmeimim, Latakia e Tartus. Se ilWall Street Journal parla di “momento Saigon per Putin” è perché a Washington si ritiene che possa essere l’inizio di un domino negativo per Mosca. Questo spiega perché Trump, nel suo commento a caldo, ha esaltato la caduta di un «alleato della Russia» nell’evidente convinzione che la perdita di Damasco possa spingere il Cremlino a essere più aperto a un compromesso sulla tregua in Ucraina.
Insomma, al Jolani porta Damasco nel cortile di Erdogan, spingendo “l’Impero Persiano” lontano dalle coste del Mediterraneo e umiliando Putin ma aprendo anche lo scenario a una imprevedibile resa dei conti per la leadership dell’Islam sunnita.