«La nostra democrazia – scrive la Corte in questa sentenza – si basa sulla compresenza e sulla dialettica di pluralismo e unità», ma il pluralismo molto accentuato di cui disponiamo non deve portare alla «evaporazione» della «unità e indivisibilità» della Repubblica, principio supremo richiamato nell’art. 5 della costituzione, che trova la sua base nell’unità di un popolo e di una nazione rappresentati, in sede istituzionale, da un Parlamento nazionale. Resta peraltro il fatto che “una società altamente pluralistica” come quella italiana «non può trovare espressione in una unica sede istituzionale» e questo spiega come «il regionalismo corrisponda ad una esigenza insopprimibile della nostra società quale si è gradualmente strutturata anche grazie alla Costituzione». Questa è la base concettuale da cui muove la Corte per impegnarsi in un’opera accuratissima di ripulitura (per non dire di demolizione) della legge sul regionalismo differenziato approvata lo scorso giugno, legge che, forzando l’interpretazione della norma introdotta nel 2001 con la riforma dell’articolo 116 della costituzione, veniva a mettere seriamente a rischio il principio di unità della nostra Repubblica. La sentenza, fin dal suo primo annuncio, ha suscitato valutazioni diverse. C’è stato, infatti, chi tra i promotori della legge ha pensato che la Corte con questa pronuncia avesse voluto salvare l’impianto complessivo della legge limitandosi a richiedere, per la sua operatività, soltanto alcune limitate varianti.
La lettura definitiva del testo che ora si è potuta fare dimostra il contrario e rende evidente come la Corte, utilizzando il più ampio armamentario di cui poteva disporre (non solo con il potere di annullamento diretto, ma anche con il potere di annullamento conseguenziale e con l’interpretazione adeguatrice) abbia inteso colpire e annullare i tre punti-chiave dell’impianto destinato a sorreggere l’intera legge cioè i punti rappresentati dalla possibilità di trasferire alle competenze regionali intere materie anziché specifiche funzioni; dall’emarginazione del Parlamento nel procedimento di trasferimento delle funzioni e della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep); dal quadro finanziario posto a sostegno dell’autonomia differenziata. La legge, svuotata dal suo interno, è rimasta pertanto un guscio vuoto e inemendabile. Un guscio che nel futuro prossimo potrebbe essere cancellato dal referendum abrogativo in corso di esame o che il Parlamento, se volesse, potrebbe riempire di contenuti nuovi, purché ispirati a principi diversi da quelli sanzionati da questa sentenza. Principi che la Corte ha già avuto modo di delineare con molta chiarezza sulle linee di un “regionalismo cooperativo” diverso nei suoi fondamenti da quel “regionalismo divisivo” che la legge esprimeva e che la sentenza ha sanzionato. Un “regionalismo cooperativo” già ben presente nel modello originario tracciato dalla costituzione, ma che la Corte, in questa occasione, ha opportunamente aggiornato proiettandolo dentro il nuovo quadro dell’ordinamento europeo.
È infatti l’intreccio sempre più stretto che si sta verificando tra diritto nazionale e diritto europeo a suggerire, come la Corte fa, una particolare cautela nel trasferire verso il basso funzioni quali quelle connesse al commercio internazionale, all’energia, all’ambiente, ai trasporti, alle comunicazioni, tutte materie suscettibili di essere coinvolte, ai sensi dell’art. 116, nel regionalismo differenziato. Su queste materie, suggerisce la Corte, il principio ispiratore della competenza dev’essere la sussidiarietà che l’Europa ha per prima adottato e che la nostra costituzione ha recepito con la riforma del suo art. 118. Principio dinamico, che opera – dice la Corte – verso l’alto e verso il basso come un ascensore, così da collocare di volta in volta le singole funzioni al livello più razionale per efficacia e equità e così da organizzare il mondo delle autonomie non “ex parte principis” ma “ex parte populi”.