di Francesca Mannocchi
Damasco
Piazza degli Omayyadi a Damasco ieri sembrava un respiro lungo, un respiro a polmoni pieni, dopo decenni di apnea. Un respiro di balli e grida, canti e abbracci, bandiere e preghiere.
llam Turkmani ha cinquant’anni, nata e cresciuta a Damasco. È arrivata in piazza molto presto, per le prime preghiere del venerdì dopo la caduta di Assad. Si è seduta su uno scalino col suo pacchetto di sigarette che accende, una dietro l’altra, mentre osserva le strade riempirsi.
«Siamo qui per ricordarci che abbiamo bisogno di un altro futuro» dice, un altro, come se quello che avevano di fronte fino a una settimana fa fosse già scritto per tutti.
Il passato che descrive è fatto di oppressione, lo ripete come tutti con un gesto delle mani sopra la testa, a schiacciare il capo verso il basso.
«Abbiamo aspettato per anni il momento in cui una linea rossa segnasse da una parte cosa è bene e da una parte cosa è male. Il regime era il male, la libertà il bene».
Ilam ha fatto l’insegnante fino al 2012, poi – musulmana sunnita con un figlio arrestato e poi rilasciato perché sospettato di aver collaborato coi gruppi ribelli – è stata esonerata.
All’inizio della guerra, sfollata da casa sua, è stata ospitata in una chiesa cristiana. Di quei giorni ricorda che accendeva le candele con i monaci sperando che un giorno sarebbe arrivata la pace. Nella chiesa che l’ha accolta ha letto la Bibbia e lì ha capito che sono i regimi a instillare nella mente delle persone la convinzione che chi appartiene a religioni diverse sia destinato a odiarsi, «i regimi hanno bisogno di divedere le fedi, perché hanno bisogno di usare quell’odio come un’arma». In quella chiesa è nata in lei la convinzione che la nuova Siria, che un giorno era certa sarebbe arrivata, avrebbe dovuto essere la Siria di tutte le fedi.
Ora per il paese la sfida è transitare la felicità della piazza verso il futuro nuovo di cui parla Ilam, attraversando un percorso a ostacoli. Perché la libertà di oggi si impasta con l’oppressione descritta da tutti, sfogata nei racconti di abusi, corruzione, torture, espropri.
E la libertà di domani deve costruirsi sulla capacità di convivere con chi ha gestito, organizzato e abitato quell’oppressione, quando il paese ha contato i morti, e quando ha smesso di contarli.
Quando li ha contati il mondo intorno e quando il mondo intorno ha smesso di curarsene, mentre la conta raggiungeva il mezzo milione e gli esseri umani, morti o scomparsi nelle prigioni di Assad, diventavano solo cifre.
Ilam non rimprovera gli Stati europei per aver trascurato la Siria, anzi li ringrazia perché si sono presi cura dei rifugiati. Ignara, forse, che quella stessa Europa non ha aspettato nemmeno un giorno, dopo la caduta di Bashar al-Assad, per ripensare e mettere in discussione il diritto d’asilo per i rifugiati siriani. Ignara, forse, delle ultime decisioni. Come quella del governo conservatore austriaco che offre ai rifugiati siriani un “bonus per il ritorno”. Mille euro per tornare a casa, perché, secondo il cancelliere Karl Nehammer, il giorno della caduta di Assad rende la Siria un paese di nuovo sicuro. Così, immediatamente sicuro, che le domande d’asilo sono state interrotte in Austria come in altri dodici Paesi europei.
Ilam dice che prega affinché tutti tornino a casa, a costruire la nuova Siria insieme a chi, come lei, sente di essere nata ieri, coloro che non sono spaventati per il futuro, perché lungo le strade di Damasco, il tempo della preoccupazione per il domani non è ancora arrivato.
«Niente può essere peggio di quello che è stato, per questo non possiamo temere il domani, ma possiamo solo ringraziare chiunque abbia combattuto in questi anni per portarci qui».
La paura degli islamisti è un tema che non le interessa. Non vuole concentrarsi su quello che gli altri temono, vuole pensare solo a quello che unisce la gente che ha ripreso le piazze: il desiderio di giustizia. Un respiro lungo dopo l’apnea.
Il primo venerdì della Siria libera da Assad
Ieri a Damasco sono arrivati in migliaia nella moschea degli Omayyadi per le prime preghiere dopo la caduta del regime. Il primo venerdì della nuova Siria, meno di una settimana dopo che le forze di opposizione hanno preso il controllo della capitale. In mattinata il leader di Hayat Tharir al-Sham (Hts), Ahmed al-Sharaa (Al-Joulani) aveva invitato la gente a scendere in strada per celebrare «la vittoria della rivoluzione» e una folla enorme di civili e combattenti ha risposto, riempiendo la più grande piazza di Damasco, e riportando alla memoria i giorni delle rivolte del 2011, quando i manifestanti chiedevano diritti, democrazia e la fine del regime in tutte le città proprio dopo le preghiere del venerdì. Molte delle persone presenti ieri non entravano nella moschea da anni, spaventati dai controlli del regime. Bilal al-Saad ha trent’anni, è arrivato da Idlib. Viene dalle zone rurali intorno Aleppo, ha combattuto con i ribelli di Al-Joulani negli ultimi anni, e non aveva mai visto Damasco. Pensa che la vittoria che si celebrava ieri sia figlia della prima stagione della rivoluzione e che non c’è differenza tra le richieste di dodici anni fa e quelle di oggi, che è cresciuta una generazione di combattenti in più ma le parole d’ordine sono sempre le stesse: cacciare Assad per una Siria libera.
Quando è iniziata l’offensiva due settimane fa non aveva messo in conto che sarebbe finita a Damasco, la speranza era riconquistare terreno intorno ad Aleppo, poi l’esercito di Assad si è sbriciolato e le province sono cadute una dietro l’altra. Indossa l’uniforme e sorride quando dice che invece avrebbe voluto indossare l’abito della festa. Per un paio di giorni si è guardato intorno spaesato, dopo aver conquistato una città che non conosceva, una città meravigliosa, dice, che unificheremo come tutta la Siria, governando come hanno fatto a Idlib, «dove non c’era corruzione».
Nelle stesse ore in cui i fedeli pregavano nella moschea degli Omayyadi e i manifestanti riempivano la piazza, il Segretario di Stato americano Antony Blinken incontrava gli alleati della regione e dopo i colloqui in Giordania e Turchia, è arrivato in Iraq con una tappa non annunciata in precedenza. L’obiettivo è dare forma alla transizione siriana, con un governo ad interim «inclusivo e non settario». Un governo tollerante che garantisca la stabilità, condizione necessaria ma non sufficiente per non far ripiombare la Siria in una guerra civile tra fazioni che lottano per un Paese in cui altri promuovono i propri interessi.
I turchi che combattono con gli autonomisti curdi a Nord, gli americani contro le cellule dello Stato Islamico, e Israele che sta chirurgicamente bombardando i siti militari siriani e che si è spinto in profondità nelle alture del Golan, occupando territorio.
Sulla carta, osservando dall’esterno, tutto lascerebbe pensare che il Paese sia destinato a scivolare presto, di nuovo, in una guerra civile “allargata”.
Ma la piazza, ieri, era distante da ogni analisi, o previsione.
Una piazza fatalista, forse. O solo una piazza che vuole vivere nel presente. Perché i tempi declinati fino a una settimana fa erano un passato di oppressione e un futuro lugubre.
Zakariya Raslan ha sessant’anni, ha fatto il sarto tutta la vita. Ieri ha cucito a mano la bandiera siriana che ha annodato sulle spalle. Tre stelle rosse, la bandiera della Siria libera. Quella di arabi e curdi, sunniti, sciiti e cristiani. Non riesce a descrivere la paura che lo ha accompagnato sempre, ripete anche lui la parola oppressione, come se non ce ne fosse un’altra per descrivere decenni di regime. Negli ultimi anni ha vissuto temendo che gli uomini di Assad entrassero buttando giù la porta, portandogli via tutto ciò che aveva, è una paura di cui conosce il sapore perché lo hanno già fatto. Era il 2012, e le forze di sicurezza del regime sono entrate in casa sua e gli hanno detto di impacchettare le cose e andarsene. Il regime aveva stabilito che l’area in cui viveva dovesse essere assegnata agli alawiti, e come tutti i suoi vicini non ha potuto fare altro che obbedire. L’alternativa era essere torturati, oppure la morte.
Anche a lui interessa poco cosa sarà domani. Non si è ancora reso conto di cosa significhi davvero la libertà, perché è tutto nuovo, perché questa, dice, è stata la prima settimana della sua vita.