di
Antonio Dipollina
Alcuni sostengono che sia ormai chiusa la Golden Age delle serie tv – quella che viveva di naufraghi, draghi volanti e chimici spacciatori. Gli altri, non ci fanno caso e continuano a godersi il momento, con alti e bassi. È grande comunque la confusione sotto il cielo seriale. La situazione è dunque eccedente. Nel senso che sono troppe e, a stilare elenchi, l’ipotesi di lasciarne fuori troppe, e meritevoli, diventa certezza. Ma qualcuno deve pur farlo. Dieci recenti, imperdibili, in ordine sparso. Se non piacciono, ce ne sono altre dieci pronte.
Slow Horses (Apple Tv)
La vulgata vuole che Apple Tv stia bullizzando la concorrenza in fatto di qualità delle serie proposte. Ma ne sconta il prezzo, figurando come fanalino di coda negli abbonati. Ma poi c’èSlow Horses: il gruppo smandrappato di agenti segreti inglesi, caduti in disgrazia – per demeriti autentici – e alla mercé del capo, puzzone e inavvicinabile: ma è Gary Oldman. Una delizia, roba da grandi. Per la sigla, c’è Mick Jagger in azione.
L’amica geniale (RaiPlay)
Una quarta e ultima stagione arrivata di recente a chiudere il cerchio dei romanzi di Elena Ferrante. Si può eccepire qui e là, ma – iniziata nel 2018 – è la produzione più rilevante targata Rai negli ultimi anni. Purtroppo, dal 2018 è passato un secolo, con mille guai in mezzo, e il consumo televisivo è diventato un’altra cosa. Un giorno si scriverà che L’amica geniale è stata l’ultima propaggine di una gloriosa vicenda televisiva Rai intrecciata con i migliori racconti della nostra storia recente. Lila, Lenù e Sarratore restano comunque archetipi assoluti, in un contesto sempre all’altezza.
Fargo (Sky)
Il film dei Coen è del 1996, la prima stagione della serie (con Martin Freeman che uccide per sbaglio con un martelletto di legno) è del 2014. Sarebbe modernariato, ormai, se non fosse per il grandioso colpo di coda della recente numero 5. Jon Hamm è un Donald Trump western, Juno Temple è la ragazza ribelle che fa sognare, Jennifer Jason Leigh è grandissima. E la storia è all’altezza delle prime stagioni. L’invito – per chi avesse saltato l’intero giro – è di riprendere tutto dall’inizio e ribadire che il marchio Fargo ha cambiato la percezione stessa del raccontare storie noir.
Only Murders in the Building (Disney +)
La serie che non c’era, quella che si distingue, la classe degli americani da old comedy: e la genialata diuna vicenda crime che ruota intorno a un modernissimo podcast. Steve Martin, Selena Gomez, Martin Short, il trio di investigatori più eccentrico, un palazzo newyorchese dove si uccide che è un piacere, le indagini, i toni, l’umorismo soffuso, slapstickquando serve. Finisce con le star che fanno a gara per un cameo – tipo Meryl Streep. Sprazzi di musical, anche, e quel tipo di divertimento vecchia maniera che non finirà mai.
Ripley (Netflix)
Questa è una miniserie in piena regola e in pieno stile Netflix. Fino a un minuto prima nessuno ne sapeva alcunché, il giorno dopo era la cosa migliore in circolazione. Remake in bianco e nero, in origine il romanzo di Patricia Highsmith, a seguire il film di Minghella con cast stratosferico ( Damon, Paltrow, Jude Law, Blanchett, Seymour Hoffman). Andrew Scott e Dakota Fanning cercano di essere all’altezza e ci riescono, viaggiando fra Atrani, Sanremo e Roma. La vita da truffatore perfetto, la discesa negli abissi è una scalinata in Costiera.
Shogun (Disney +)
Ripescando un classico di quasi mezzo secolo fa, il romanzo bestseller di James Clavell, una megaproduzione nipponica con vago gusto anglosassone diffuso. Il Giappone feudale, il potere, il colonialismoreligioso, le passioni forti ma controllate, i terremoti che cambiano le guerre. Gli attori sono divi in patria, convincenti ovunque: e l’imponente lavoro, quasi magnetico, è consigliato soprattutto a chi non crede di gradire cose simili.
The Bear (Disney +)
C’è chi, scherzando, ha detto che è come se Martin Scorsese avesse girato una serie su una paninoteca di Chicago. Ma se è per rendere vagamente l’idea, ci siamo: da poco è passata la quarta stagione della saga dei Berzatto, il divino Carmy insegue i suoi fantasmi di gloria culinaria – con escursioni dai top- chef di Scandinavia. Ma lo psicodramma permanente della famiglia è di livello. Va da sé, ora si parla di stanchezza, o di troppo successo di tendenza – sono tutti sdruciti ma vestono capi diventati autentica moda. Jeremy Allen White è tra le poche star diventate tali seguendo una strada così.
Il simpatizzante (Sky)
Il romanzo è del 2015, premio Pulitzer, scritto da Vien Thanh Nguyen. La miniserie è di quelle che una tv si mette all’occhiello, e poi si passa ad altro. Livello altissimo, trama complicata tra Vietnam e America dei tempi di guerra, una spia dei rossi esiliata a Los Angeles e nel mirino di entrambe le parti. Con l’Americapulsante in sottofondo e, soprattutto, Robert Downey jr, che produce la serie e interpreta quattro ruoli diversi, a volte anche in contemporanea.
Baby Reindeer (Netflix)
Miniserie imprescindibile: sia alla sua uscita che dopo, quando la realtà – i personaggi veri raccontati per fiction – hanno deciso che la gloria non dovesse prendersela tutta Richard Gadd, autore e protagonista, con la sua storia di stalkerato a sangue da Martha, che lui voleva solo tirar su di morale offrendole un tè. Segue dibattito su realtà e finzione, seguono denunce e richieste di risarcimenti. Ma colpi così – e a Netflix succede spesso – vanno nella casella top delle produzioni seriali.
Hanno ucciso l’Uomo ragno – La leggendaria storia degli 883 (Sky) Si potevano prevedere il successo e la simpatia diffusa tra il pubblico, ma non fino a questo punto. Colpo dell’anno per Sky, seconda stagione già in lavorazione. Chi seguiva il regista, Sydney Sibilia (gran talento per vicende pop-storiche) non è rimasto sorpreso. Sorprendente è stato invece azzeccare quasi tutto, dagli interpreti del mito pop anni 90, alla leggerezza del tono da tenere nel raccontare gli 883. E soprattutto quegli anni: provocando in tantissimo pubblico una gioia nostalgica incontrollabile.