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L’opera prima di Giuseppe Penone, Alpi Marittime, si identifica con un toponimo che vale non solo come titolo, ma, insieme alla data 1968, come indice geografico, appunto di diario, attestazione documentale di un ciclo di lavori inaugurato dall’artista, allora ventunenne, nei boschi di Garessio. Si trattava di una serie di interferenze destinate a modificare la crescita degli alberi o a fissare le tracce del contatto tra il corpo dell’artista e i tronchi, o quelle del suo immergersi nel flusso delle acque di un ruscello. Era l’epifania – documentata inizialmente solo dalle fotografie in bianco nero scattate nel bosco innevato, accompagnate da brevi testi – di un’attitudine destinata a dettagliarsi, diversificarsi e irradiarsi nell’opera di Penone fino a oggi.
Quelle azioni erano coniugate al futuro: Continuerà a crescere tranne che in quel punto; L’albero ricorderà il contatto; Crescendo innalzerà la rete; il processo di crescita cui il gesto dell’artista intendeva correlarsi non avrebbe riguardato negli anni successivi solo gli alberi oggetto del suo intervento, ma il suo stesso operare, nella pratica della scultura e del disegno e nel pensiero che vi si intreccia.
In Sento il respiro della foresta, uno dei disegni che sviluppano il dispositivo enunciato in Continuerà a crescere tranne che in quel punto, la sezione del tronco stretto dal pugno dell’artista è resa con linee concentriche, riferite agli anni di crescita. Esse si espandono intorno a un nucleo centrale ricavato a frottage, nell’annunciarsi del tema dell’impronta, filo conduttore della mostra di Alba e lemma ricorrente nei testi dell’artista fin dal 1969.
Nelle sue annotazioni, l’impronta non riveste il ruolo di semplice traccia, di riflesso di un contatto casuale o strumentale, di registrazione di pura presenza (come avviene nelle opere in cui è attivo il «paradigma indicale», proposto nel 1977 da Rosalind Krauss come tratto distintivo di molte ricerche artistiche di quegli anni); è invece il segno a due facce di un incontro intenzionale: «La cera – scrive Penone nel 1969 – registra il gesto delle dita, l’impronta della mano e contemporaneamente l’impronta dell’albero».
Le mappature del suo corpo, realizzate dall’artista a partire dal 1970, evidenziano le similitudini tra corteccia ed epidermide. (Trovo in un romanzo del premio Nobel per la Letteratura 2024 Han Kang, L’ora di greco, un passaggio che allarga il campo delle possibili analogie: «Immaginavo vagamente che la tua voce assomigliasse alla grana e al profumo di quei legni»). In Svolgere la propria pelle – 10 giugno 1970 e in Coincidenza di immagini, entrambe in mostra, la fotografia del braccio aperto di Penone e la corrispondente impronta rilevata con l’inchiostro sono in un caso affiancate, nell’altro sovrapposte, in base a un’idea del corpo come matrice vivente che torna in forme nuove anche nelle opere recenti.
Non si tratta di logica formale, di equivalenza tra due diverse ma ugualmente oggettive modalità di produzione dell’immagine, ma della volontà di sottolineare il rapporto che lega l’impronta a una presenza senziente, animata dal respiro e dallo scorrere del sangue così come i tronchi lo sono da quello della linfa.
Il catalogo propone una pluralità di punti di vista e di riferimenti disciplinari. Francesco Guzzetti, rifacendosi a un passaggio dell’Alberti nel De statua, analizza l’impronta come matrice analogica della scultura, mentre Jean-Christophe Bailly sottolinea la centralità del «peso del vivente» nell’opera di Penone, percorrendo nella sua lettura il variare delle superfici delle sculture e soffermandosi sui «grandi aloni» in grisaglia che le spine di acacia determinano quando sono utilizzate per fissare sulla tela imprimiture di labbra, occhi, pelle, affinché lo sguardo le percepisca come attraverso un velo.
Nel 1981 Penone ha avviato la serie Essere fiume, replicando con i gesti e le azioni della scultura la forma di pietre lavorate dalla corrente: «Estrarre una pietra scolpita dal fiume – spiega l’artista –, andare a ritroso nel corso del fiume, scoprire il punto del monte da dove la pietra è venuta, estrarre un nuovo blocco di pietra dal monte, ripetere esattamente la pietra estratta dal fiume nel nuovo blocco di pietra». Per approfondire il rapporto di Penone con il Regnum lapideum di Linneo, Carlo Ossola ci invita alla lettura di Roger Caillois, a scoprire in Pietre (1966) passaggi come questo, in cui il toccare è atto di conoscenza e immedesimazione: «All’uomo, alla misura della sua mano, le pietre offrono la purezza, il freddo e la distanza dagli astri, e varie forme di serenità».
L’orizzonte geografico in cui si colloca questo progetto espositivo si estende dalle Alpi Marittime al convento domenicano di Sainte-Marie de la Tourette a Éveux, vicino a Lione, dove Penone ha soggiornato a più riprese in anni recenti e dove ha allestito nel 2022 una mostra personale.
Progettato da Le Corbusier in collaborazione con il musicista e architetto Jannis Xenakis tra il 1953 e il 1961, il convento reca traccia del gusto brutalista dominante negli anni cinquanta, per il carattere scabro delle pareti intonacate come di quelle in cemento («rude béton lyonnais», lo definiva Le Corbusier).
In quel luogo di meditazione, Penone non ha trovato solo nuove superfici da ricalcare a frottage, evidenziando le venature del legno usato per le casseforme del cemento.
Si è confrontato anche – ne dà conto in catalogo Olivier Cinqualbre – con il Modulor, il sistema di misure elaborato da Le Corbusier basandosi sulla sezione aurea e sull’altezza media del corpo umano, e con le scale cromatiche da lui messe a punto tra anni trenta e cinquanta.
Il ciclo delle grandi tele Impronte di luce, avviato nel 2022 e ora presentato per la prima volta in Italia, si ispira nei fondi monocromi a quelle gradazioni di colori e nelle dimensioni (183 x 183 cm) alle indicazioni del Modulor.
I corpi danzanti, anch’essi colorati, che vi dispiegano le loro traiettorie sono in realtà, ancora una volta, impronte di mani, traduzione in pittura della proiezione ingrandita dei solchi e delle creste che solcano la pelle di dita in movimento. Nello stesso anno, in Avvolgere la terra, l’elemento cromatico entra in gioco anche nella scultura, quando le mani dell’artista, coperte di pigmenti, stringendo un blocco di creta ne disegnano la forma e insieme vi depongono tracce di colore.
Il gesto della mano che plasma la terra mette in campo una dimensione antropologica. Lo ricorda Carlo Ossola, nel sottolineare come l’«arrière-pays» dell’alta Langa e delle Alpi Marittime accomuni Penone a Cesare Pavese e a Luigi Einaudi, che già nel 1951 lamentava l’abbandono e il dissesto di quei territori, «asciutto profilarsi – scrive Ossola – di tronchi e cespugli di roccia “dilapidati” dal tempo, dagli elementi, dalla fatica umana».