Prima scena. Un suono cupo e lontano scende dal tempio di Gerusalemme, ripreso da tanti altri che echeggiano nei villaggi dispersi, nelle campagne e nel deserto. Tutti questi suoni escono da grossi corni di capro nei quali si soffia con forza. In ebraico il termine che li denomina è yobel, parola che già i Fenici usavano per indicare il capro. È da quel vocabolo che è derivato il nostro giubileo. Esso rimanda sia allo strumento sonoro sia a un evento sacro e sociale scandito da quel suono, cadenzato a suggello di sette settimane d’anni, cioè nel cinquantesimo.
Seconda scena. La vita dell’Israele antico era rivoluzionata in quell’anno speciale. È una pagina nel terzo libro della Bibbia, il Levitico, compendio di norme rituali e legali, a definirne nel c. 25 il canone programmatico. Per un intero anno «non farete né semina, né mietitura, né vendemmia». La terra vivrà anch’essa un suo “sabato” di riposo e gli abitanti si alimenteranno dei suoi frutti spontanei, riconoscendo che la natura ha una sua autonomia e un Creatore.
Ma è anche imposto qualcosa di più impegnativo di taglio sociale. Le proprietà alienate ritorneranno ai loro padroni originari, i debiti saranno rimessi, gli schiavi riscattati e liberati. Era una sorta di ripresa delle origini in cui la terra promessa da Dio agli Israeliti era stata assegnata a tutti e nessuno era costretto a servire per sopravvivere. Un progetto ideale di parità comunitaria riconquistata che ha, certo, un retrogusto utopico, ma che i profeti insisteranno a predicare, criticandone il non rispetto. Una nota curiosa: l’antica versione greca della Bibbia detta “dei Settanta” traduce yobel con áphesis, cioè “remissione, liberazione, perdono”.
Terza scena. Passano i secoli e nella modesta sinagoga di Nazaret, un villaggio della Galilea, la regione settentrionale della terra biblica, si sta celebrando il culto sabbatico. Nella piccola folla si distingue un concittadino che sta divenendo famoso in tutta la regione, Gesù, figlio di Maria e Giuseppe. Il rabbino lo invita a leggere il brano biblico di quella liturgia. È un passo del c. 61 del profeta Isaia che il lettore applica a sé e alla sua missione e l’evento è narrato dall’evangelista Luca (4,16-20).
Il programma è forte: portare ai poveri la «buona novella» (in greco “evangelizzare”), liberare i prigionieri, curare i ciechi e i sofferenti, dedicarsi alla liberazione degli oppressi. Gesù definisce questo suo progetto come «l’anno gradito» a Dio, un’ideale “giubileo” di grazia, di rinascita, di salvezza. Sarà questo il suo costante impegno a cui voterà sé stesso ma anche i suoi discepoli presenti e futuri.
Quarta scena. Scorrono ancora i secoli, e il 22 febbraio 1300 Bonifacio VIII, il papa detestato da Dante, con una bolla indice il primo dei 27 giubilei ordinari universali, con un grande annuncio di perdono delle colpe attraverso il pellegrinaggio alla basilica di San Pietro. Lo storico contemporaneo Giovanni Villani parla di 200mila pellegrini. Tra loro riconosciamo due volti celebri sui quali puntiamo ora il nostro obiettivo. Il primo è proprio quello di Dante che rappresenta il pellegrinaggio giubilare in modo quasi visivo quando rievoca, in comparazione, la folla di «grandi peccatori» che procedono nella prima delle dieci Malebolge, popolata da ruffiani e seduttori (Inferno XVIII, 23-33).
Il parallelo è curiosamente stabilito con la processione dei pellegrini che, nell’«anno del giubileo» del 1300 si muovevano in due file analoghe su un percorso che, per certi versi, è simile a quello previsto per l’attuale anno santo. Cerchiamo di parafrasare il testo dantesco. I Romani in quell’occasione, a causa dell’«esercito molto», ossia del flusso enorme dei pellegrini, avevano studiato di far transitare la gente sul ponte di Castel S. Angelo.
Così, da un lato, rivolti verso il Castello, avanzavano i pellegrini diretti alla basilica di San Pietro; d’altro lato, in direzione inversa, procedevano quelli che rientravano dalla visita, raggiungevano l’altra sponda del Tevere e salivano verso una piccola altura detta “monte Giordano”, ora scomparsa, per ritornare alle varie case d’accoglienza nella città. Se Dante si affida alle parole per raffigurare la scena, Giotto, suo contemporaneo (nasce attorno al 1267 e muore nel 1336), ci permette di contemplare in una sorta di istantanea l’inizio assoluto di quel giubileo.
Invitiamo i lettori romani e i visitatori del prossimo anno santo a varcare la soglia di San Giovanni in Laterano, una delle quattro basiliche giubilari (con San Pietro, Santa Maria Maggiore, San Paolo fuori le mura) e di dirigersi verso il primo pilastro della navata intermedia. Là scopriranno l’affresco con cui Giotto ha dipinto Bonifacio VIII che dalla loggia proclama l’anno giubilare. Quest’opera è stata qui trasferita dalla loggia dell’adiacente Palazzo Lateranense ove era inizialmente collocata.
Quinta scena. È l’imminente vigilia di Natale: papa Francesco aprirà solennemente la porta santa che è sempre chiusa e che ora – anche secondo una costante simbologia biblica – diventa il segno dell’accesso all’incontro con Dio nel suo tempio per la remissione dei peccati e la conversione. Il rituale ora è molto più sobrio rispetto al passato, quando la porta era murata e doveva essere calata, dopo che il papa con un martello d’oro o d’argento aveva bussato per tre volte intonando i versetti del Salmo 24: Aperite mihi portas iustitiae.
Dopo quel triplice colpo e l’abbassamento del portale, si lavava la soglia dalla quale era stata estratta la porta murata. Il pontefice la varcava per primo reggendo nella destra la croce astile e nella sinistra una candela accesa. Alla fine dell’anno santo, il papa stesso vi stendeva per tre volte uno strato di calce nel quale fissava tre pietre con le medaglie commemorative di quel giubileo e si ricollocava la porta santa murandola. Ora essa è fissa e chiusa e viene spalancata da papa Francesco che la varca per primo, mentre in date successive saranno aperte le porte sante delle altre tre basiliche per quest’anno giubilare e una straordinaria nel carcere di Rebibbia.
Bonifacio VIII prefigurava questo evento per ogni secolo, ma già nel 1350 Clemente VI lo riproponeva e nel 1425 Martino V iniziava la tradizione venticinquennale. Essa fu interrotta, per le note vicende storiche nel 1800 e nel 1850. Se è lecita un’attestazione personale, a otto anni nel 1950 partecipai alla chiusura dell’anno giubilare scorgendo Pio XII sulla sedia gestatoria, naturalmente non immaginando l’attuale presenza a questo mio quarto giubileo come cardinale, accanto a papa Francesco alle soglie dell’odierno Natale.