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12 Gennaio 2025Storia dell’arte, epistolari Un senso lancinante di sconfitta percorre le lettere 1943-1969 tra Francesco Arcangeli e Gabriella Festi, ora edite da Pendragon. La storia dell’arte, con le sue pene universitarie e le sue luci conoscitive, fa da commento…
Un tesoro di ben 463 lettere scritte nell’arco di quasi trent’anni, a partire dal 1943: 349 spedite da lui a lei e 114 da lei a lui. E questa sproporzione è già indicativa di un rapporto sentimentale asimmetrico. Lui è Francesco Arcangeli, storico dell’arte allievo «irregolare» di Roberto Longhi, con il quale si era laureato a Bologna nel 1937 con una tesi sul pittore e miniaturista emiliano Jacopo di Paolo. Lei è Gabriella Festi, ugualmente bolognese, insegnante di lingua inglese alle superiori e traduttrice. Lui nato nel 1915, lei di due anni più anziana. Il «tesoro» era stato ritrovato dai nipoti di Gabriella all’indomani della sua morte nel 2002: lo teneva custodito nel comodino.
Una scelta di quelle lettere ora è pubblicata in un volume curato da Maria Malatesta e Davide Festi: Come un ricordo remoto d’amore Lettere 1943-1969 (Pendragon, pp. 268, euro 20,00); ma, per la bellezza di quanto letto e per i tanti nodi culturalmente cruciali che interseca, sarebbe stata cosa buona pubblicare l’epistolario in integrale. Un epistolario che documenta una tormentata autobiografia sentimentale ma anche una straordinaria e non meno tormentata autobiografia intellettuale.
L’asimmetria è stata comunque rispettata nella selezione proposta dai curatori: 51 lettere di Arcangeli e 16 di Festi. L’asimmetria del resto è la cifra di questo rapporto sentimentale mai arrivato a un punto di approdo. C’è una diversità di classi sociali tra i due protagonisti, lui di famiglia povera e sempre alle prese con problemi economici, lei invece benestante, di appartenenza borghese, figlia di un industriale nel ramo farmaceutico, poi datosi alla politica con militanza e carriera nelle fila del Pci bolognese. Tra loro c’è anche un dislivello culturale che Arcangeli, per quanto innamoratissimo, non fa niente per camuffare. C’è soprattutto un’opposta predisposizione al rapporto fisico, in quanto lui dichiara in più occasioni una fortissima attrazione per il corpo di lei («Mi pare di avere una sete orribile di te»), mentre Gabriella esplicitamente chiude la porta («Io per te non sento nessuna attrazione fisica e non l’ho mai sentita»). In una lettera di sfogo al padre di lei, Arcangeli addirittura avanza l’ipotesi che se mai a un matrimonio si arrivasse «potrebbe essere un matrimonio in bianco».
Nei fatti il rapporto è rimasto sempre dolorosamente confinato in un limbo di indefinitezza, con un’altalena di picchi intensi, di rotture con conseguenti silenzi, di riprese di fiamma. Arcangeli da parte sua non contribuisce a uno sbocco favorevole, alternando parole innamorate piene di tenerezza ad altre invece spigolose, segnate da un paternalismo a volte indisponente: in tante occasioni incalza Gabriella, quasi si sentisse nel dovere di ammaestrarla in direzione di un maggior impegno intellettuale e sull’attualità storica.
D’altra parte, proprio la sincerità di Arcangeli, struggente al punto da apparire a volte quasi sconcertante, è la cifra che rende queste lettere un documento unico e toccante. Una sincerità che si allarga naturalmente anche a tutta la sua attività di storico, di critico, di insegnante. Sono tutte lettere scritte a cuore aperto che fanno di Gabriella (spesso curiosamente nominata con diminutivi al maschile: «Gabino», «Gabettino mio») depositaria non solo dell’amore di Arcangeli ma anche delle sue inquietudini, delle frustrazioni come pure delle passioni e dei moti d’orgoglio, senza separatezza tra le diverse sfere.
A far da basso continuo nel passaggio da un argomento all’altro è un sentimento lancinante e quasi ineluttabile di sconfitta. Scrive il critico il 22 agosto del 1948: «Pensa a questo, al fatto che a un uomo di 33 anni, che è uno dei primi in Italia nel mio ramo, toccano queste miserevoli condizioni di vita, e poi dimmi tu con quale animo si può vivere». Ma nella stessa lettera si dà lui stesso una risposta con una confessione che è come un meraviglioso spot per la storia dell’arte: «Domani mattina andrò a Pesaro a bicicletta a studiare. Ho un bisogno disperato di vedere quadri, di imparare qualche cosa; sento che comincio ad avvicinarmi alla maturità, e non so ancora niente. Quel po’ che ho fatto, l’ho fatto quasi tutto per l’audacia di cui è capace la mia testa. Credo e spero che la Pinacoteca sia aperta; e allora, se potrò vedere i Bellini, credo che mi calmerò».
Tra le sconfitte che lo mettono alla prova, le più dolorose sono quelle che riguardano i rapporti con Longhi e con Morandi. Con il maestro le relazioni si incrinano nel 1949, quando il professore decide di lasciare Bologna per puntare alla cattedra lasciata libera da Pietro Toesca a Roma (in realtà poi finì a Firenze); Arcangeli non aveva ancora un inquadramento nei ruoli universitari che gli permettesse di prendere la cattedra e così Longhi propose a Cesare Gnudi di sostituirlo. Ma è con il passare degli anni che l’allievo si sente sempre più incompreso dal maestro. «Longhi mi ha messo in zona morta», scrive ne 1954. Mentre in una lettera del 1958 si sente bersaglio non citato in un testo di presentazione di Longhi per Guttuso: «Le ultime righe contro l’estetismo dell’agonia sono soprattutto contro di me. Non saranno facili i rapporti con lui, nel futuro».
Quando si consuma la dolorosa controversia con Morandi per la monografia, che l’artista aveva disconosciuto e vietato di pubblicare, Longhi dà ragione a quest’ultimo. Per Arcangeli è uno scacco doloroso: il libro, con le foto scelte da lui in accordo con Morandi stesso, sarebbe uscito per le edizioni del Milione con testo di Lamberto Vitali. «Il trauma per la cattiva accoglienza fatta da Morandi al mio sforzo è stato troppo forte, oltre al lavoro interrotto», scrive a Gabriella nel dicembre 1961. Di controcanto resta sempre solido il rapporto con Ennio Morlotti: «mi vuole molto bene… Non so quello che farà lui, quello che farò io, ma credo che da questo lato io e lui ci intenderemo sempre», si legge in una lettera del luglio 1955. Nella stessa lettera racconta a Gabriella una visita nello studio dell’artista a Imbersago, sull’Adda («la Brianza, con le sue ville del settecento, i suoi piccoli laghi tristi, la sua campagna così diversa dalla nostra, era una meraviglia»). Di ritorno si era fermato a dormire a Milano a casa dell’artista: «Ed è pur bello, ogni tanto parlare a tarda notte, o la mattina appena svegli (eravamo noi due soli) di quello che ci interessa e che ci interesserà finché avremo vita».
Nell’ultima lettera pubblicata nel volume, datata luglio 1967, abbiamo modo di imbatterci nell’Arcangeli docente, arrivato alla cattedra dell’università di Bologna proprio quell’anno. Aveva in programma di fare un corso sul Trecento bolognese, un suo cavallo di battaglia, ma poi a Gabriella confida di aver avuto un ripensamento, dettato da una esemplare preoccupazione pedagogica: «Mi è saltato in testa che forse a questi giovani che vengono a studiare qua occorrerebbe dare l’idea che Bologna e l’Emilia, sono state, nel tempo, il luogo di una grande arte originale». E traccia la linea che partendo da Wiligelmo, passa da Vitale, Aspertini, Ludovico Carracci, Crespi, su su fino ai «Morandi più misteriosi», a Moreni e Sergio Vacchi. È l’Emilia «selvatica, popolare, carne, umore e fantasia, della sua grande tradizione naturalistica ed espressionistica». Nel 1970 quell’intuizione critica avrebbe dato luogo a una mostra storica, Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana.
Le lettere a Gabriella in alcuni casi si chiudono con brevi strofe poetiche a lei dedicate. È da una di queste che è stato tratto il verso che dà il titolo al libro. Le poesie di Arcangeli, che tanto erano piaciute a Giorgio Bassani, sono state da poco pubblicate sempre da Pendragon, a cura di Marco Antonio Bazzocchi. Non ci sono dubbi che lo storico dell’arte Francesco Arcangeli sia stato anche un uomo di grande poesia…