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18 Gennaio 2025La tregua è passata con due «no» Da domani a casa i primi ostaggi
18 Gennaio 2025Palestina Dalle tre fasi manca la soluzione politica: la fine dell’occupazione e l’autodeterminazione palestinese. Otto mesi di offensiva in più non sono serviti agli obiettivi militari ma a quello politico-coloniale: ridurre la popolazione e la terra palestinesi, nella Striscia e in Cisgiordania
Manca un giorno all’entrata in vigore di una tregua indispensabile alla sopravvivenza di due milioni di persone. L’ovvio sollievo per la fine di un’offensiva militare condotta contro una popolazione civile si mescola al dolore impotente per il tempo perso e per la consapevolezza che, terminati i bombardamenti, a Gaza non si smetterà di morire.
Le ipoteche che pesano sul futuro della piccola enclave palestinese sono immani, proporzionali alla magnitudo di distruzione e disfacimento sociale portati avanti per 15 mesi dalle autorità israeliane. In quelle pratiche militari – un genocidio – sta la risposta a chi si chiede, in un esercizio di retorica, perché si sia atteso tanto, perché un accordo che era sul tavolo otto mesi fa sia stato siglato soltanto ora. Dal punto di vista degli obiettivi militari dichiarati – la liberazione degli ostaggi israeliani e l’eliminazione di Hamas – otto mesi in più non sono serviti a nulla.
Come ha dimostrato la prima tregua (novembre 2023), gli ostaggi potevano tornare a casa, vivi, solo attraverso un accordo. Un anno fa ne furono liberati 105. Riguardo alla distruzione del movimento islamico palestinese, è chiaro che l’obiettivo sbandierato dal primo ministro Netanyahu era e resta irraggiungibile. Lo sapeva anche lui. Per mesi glielo hanno ripetuto in tanti, anche i suoi stessi servizi.
OTTO MESI in più sono dunque serviti a raggiungere un altro obiettivo (politico, non militare) o comunque ad accelerare la sua realizzazione: la riduzione della popolazione palestinese e della terra palestinese, in tutti i Territori occupati.
In otto mesi la brutalità senza precedenti dell’offensiva israeliana ha reso Gaza un luogo inabitabile. Invivibilità non significa solo costringere i sopravvissuti a decenni di pulizia, rimozione delle macerie, ricostruzione delle infrastrutture e delle reti sociali, politiche ed economiche, superamento del trauma individuale e collettivo.
Significa anche imporre condizioni di vita talmente insopportabili da convincere una porzione di popolazione ad andarsene. Chi resterà, la grande maggioranza, vivrà in uno spazio inquinato e deturpato, costretto a concentrarsi sul reperimento di beni essenziali alla sopravvivenza. È il ritorno all’età della pietra, come evocato più volte da alti esponenti delle forze armate israeliane, in questa come nelle offensive precedenti.
In Cisgiordania otto mesi in più hanno permesso di nascondere sotto il tappeto uno dei più grossi furti di terre dopo la Nakba del 1948 e la Naksa del 1967: le confische hanno raggiunto livelli record (un numero di ettari pari ai 25 anni precedenti combinati insieme); le colonie si sono ampliate; sono sorti nuovi insediamenti; migliaia di palestinesi hanno abbandonato le proprie comunità a causa delle violenze quotidiane dei coloni; nuove arterie stradali (destinate ai soli coloni, off limits per i palestinesi) hanno isolato villaggi e città.
Agli occhi del governo Netanyahu e dell’ultradestra che oggi punta i piedi, non sono stati otto mesi persi. Sono stati cruciali al proseguimento e all’accelerazione del progetto degli albori, la colonizzazione della Palestina storica. Se niente è davvero iniziato il 7 ottobre 2023, le modalità dell’offensiva contro Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est e quella contro i palestinesi cittadini israeliani, già marginalizzati e discriminati e oggi messi sotto silenzio da arresti e censure, va inserita all’interno dello stesso contesto, quello del colonialismo d’insediamento. In tale ottica andrebbe letto anche l’accordo di tregua in tre fasi che non a caso nessuno osa etichettare come accordo di pace.
L’ULTIMA FASE è nebulosa, nelle tempistiche e nei contenuti: si parla di ricostruzione di Gaza e di definizione della futura governance. Non c’è traccia dell’elefante nella stanza: l’assedio israeliano della Striscia, che dal 2007 strangola la popolazione controllandone ogni aspetto della vita, le calorie che ha il privilegio di consumare, la libertà di movimento, i prodotti in ingresso e quelli in uscita, la possibilità di coltivare le proprie terre, quella di pescare nelle proprie acque. L’assedio è la forma che l’occupazione militare israeliana assume a Gaza, eppure non fa parte del discorso.
Senza la fine dell’occupazione – e dunque senza il riconoscimento del legittimo diritto all’autodeterminazione – non verranno mai meno le cause scatenanti ogni forma di violenza e ogni forma di resistenza. Un elemento apparentemente marginale può aiutare a capire cosa significhi occupazione e come pesa e peserà sul futuro dei palestinesi: il governo israeliano ha introdotto nuove procedure per regolare l’accesso nei Territori occupati alle circa 200 ong internazionali che ci lavorano.
Procedure estremamente restrittive (e iper politicizzate) che impediranno a molte di loro di entrare a Gaza e in Cisgiordania e di sostenerle nella ricostruzione e nel miglioramento delle condizioni quotidiane di vita. Una delle tante forme di controllo del popolo palestinese che fanno sì che una tregua non sarà mai una pace.