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Le teorie del complotto, come la “sostituzione etnica”, nascondono la cattiva coscienza del passato coloniale, colpevolizzando le vittime per non dare loro diritti
I figli nati da soldati afroamericani e italiane dopo la guerra sono stati a lungo discriminati come “alieni” E ancora oggi si fatica a vedere chi ha genitori stranieri come cittadino
Per diversi decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il termine “razza” scomparve dal discorso pubblico in Italia e in gran parte del resto d’Europa. L’idea di razza che era stata all’origine della guerra divenne quasi un tabù linguistico. Al suo posto si cominciò a usare il termine etnia che sembrava meno tossico e più neutrale. Ma l’idea dell’esistenza di razze diverse non scomparve dalla testa delle persone né dai libri di geografia, né scomparve il substrato etnico-razziale dall’idea di nazione. Se pensiamo alla legge sulla cittadinanza imperniata sullo ius sanguinis, vediamo come questo substrato sia ancora sostanzialmente con noi. Nell’Assemblea costituente si discusse molto se usare il termine razza nella Costituzione e alla fine si decise di mantenerlo in funzione antirazzista (una scelta giusta a mio parere), ma non si considerò come la legge sulla cittadinanza fondata sullo ius sanguinis (che allora era patrilineare) generasse un’idea di appartenenza fortemente esclusiva ed escludente.
Troviamo molti segni di discriminazione razziale nell’esperienza dei bambini e delle bambine in parte afrodiscendenti nati in Italia alla fine della guerra (i cosiddetti “mulattini”) dalle relazioni tra soldati alleati non bianchi e donne bianche italiane. Le vicende di quelli che gli afroamericani chiamavano colloquialmente “ brown babies” mostrano assai chiaramente la persistenza del razzismo di origine coloniale e fascista nell’Italia postfascista, ma anche il suo tentativo di nascondersi e camuffarsi.
La loro storia rivela che all’ origine della marginalizzazione che molti di questi bambini e bambine vivevano non vi era solo il fatto che erano quasi tutti “illegittimi” (o “figli di n.n.” come riportavano ancora i documenti di identità fino al 1955) ed erano spesso stati abbandonati in orfanotrofi da madri a loro volta molto stigmatizzate, né vi era solo la povertà in cui si trovavano molto spesso a vivere. Vi era anche e soprattutto il fatto che molti italiani li percepivano come essenzialmente e razzialmente diversi, come “africani”, anche se il padre era spesso un soldato afroamericano (ma molti italiani allora non facevano molta differenza tra africani e afroamericani), insomma come piccoli “alieni.” A causa del colore della pelle, la loro cittadinanza italiana insomma era un attributo formale, non sostanziale, e non bastava a sancirne l’appartenenza piena alla nazione.
Anche per questo un sacerdote molto attivo nel campo dell’assistenza del secondo dopoguerra, don Carlo Gnocchi, concepì l’idea che sarebbero stati meglio in un paese come il Brasile con un’alta percentuale di persone “meticce.” Era l’idea di deportarli “per il loro bene”, sottraendoli all’ostilitá della popolazione. Ma anche lui in realtà condivideva degli stereotipi razzisti di quei bambini e bambine. La storia dei “mulattini” – e similmente quella delle migliaia di bambini che i colonizzatori italiani ebbero con donne africane e poi quasi sempre abbandonarono – va ricordata non solo perché è parte della storia dell’Italia repubblicana, ma soprattutto perché contribuisce a sfatare l’idea autoassolutoria degli “italiani brava gente,” sostanzialmente immuni a razzismo e antisemitismo (confinati al periodo fascista), ma anche l’idea che il razzismo sia un fenomeno che l’Italia repubblicana ha conosciuto solo dal momento in cui è cominciata l’immigrazione dai sud del mondo. Sfortunatamente non è così.
Dall’inizio dell’immigrazione dai Paesi non europei espressioni razziste e riferimenti espliciti alla razza hanno cominciato ad apparire frequentemente anche nel discorso pubblico, nel linguaggio della politica di destra (e non solo). In anni più recenti esponenti dell’attuale governo hanno pure sdoganato la teoria complottista della cosiddetta “grande sostituzione” o “sostituzione etnica”, secondo cui delle fantomatiche “elite globaliste” e antirazziste vogliono la fine dei popoli europei per sostituirli con immigrati da Paesi poveri che saranno più docili e disposti a accettare salari più bassi. Uno dei membri dell’ elite globalista sarebbe il finanziere ungherese di origine ebraica George Soros, descritto spesso con lo stereotipo antisemita dell’usuraio. È una teoria elaborata dallo scrittore islamofobo francese Renaud Camus nel 2011 e che si è sparsa rapidamente tra le destre estreme sia in Europa che negli Stati Uniti. La teoria prende a prestito elementi derivanti dal caso classico di teoria complottista moderna vale a dire I protocolli dei savi di Sion, il testo paradigmatico dell’antisemitismo politico moderno, un falso prodotto nella Russia zarista intorno al 1900 che pretendeva di essere il resoconto delle riunioni di vecchi ebrei che discutevano le loro strategie per asservire tutti i popoli della terra. Questo testo è ben conosciuto, meno conosciuto invece è un altro testo uscito in Francia in quel periodo, L’invasion noire. Questo testo esprimeva l’immaginario dell’“invasione al contrario”, vale a dire l’invasione dell’Europa da parte di popoli non-europei, africani e musulmani che in realtà erano stati invasi dall’Europa stessa nelle guerre coloniali del nuovo imperialismo – una evidente proiezione sulle vittime di quello che gli europei stavano facendo.
Questo immaginario a sua volta si basava su miti di purezza e sulle paure della contaminazione razziale espresse dal padre dell’ideologia razzista, il francese Arthur de Gobineau, a metà Ottocento. L’autore del Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane
pubblicato nel 1853 sosteneva un’equivalenza del tutto spuria tra nazioni e razze e manteneva che la mescolanza razziale era all’origine del declino delle nazioni. Il saggio usciva in un Paese che aveva già conosciuto due rivoluzioni democratiche. Il nesso tra razzismo e democrazia era già ben visibile allora. L’unico modo per escludere intere categorie di persone dall’uguaglianza promessa dai regimi democratici era quello di dichiararle essenzialmente diverse da chi si riteneva membro della razza bianca.
Oggi non si usa più il termine razza negli atti pubblici, ma contravvenendo all’articolo 3 della Costituzione, si discrimina sulla base della nazionalità, persistendo a chiamare “stranieri” ragazze e ragazzi nati ed educati in Italia cui una legge nata già vecchia nel 1992 impedisce di accedere alla cittadinanza, o più precisamente impedisce di poter far domanda per accedere alla cittadinanza prima che abbiano compiuto i diciotto anni. Il loro unico problema? Non avere genitori con la cittadinanza italiana.