«Viviamo sconvolti nelle guerre. Ma l’arte dov’è? Guernica di Picasso era arte dentro la storia. L’artista era la vittima: lo immagino disteso per terra nel suo quadro, la bocca colma di vetri, macerie, sangue. Su Guernica invito a leggere Simon Schama: sublime. Banksy? Banksy invece è un testimone, come un cartellonista geniale che fa le copertine di “Charlie Hebdo”. Lui è Bob Capa, è Oliviero Toscani, è Armando Testa. Ma Picasso è Grünewald e Guernica è la Crocifissione di Isenheim. Patisco questo assenteismo degli artisti contemporanei. Mi stupisce che nessuno abbia sentito l’esigenza o sia stato capace di intervenire con la forza necessaria, dirompente, come quella di Guernica, sulla prepotente aggressione di un popolo come l’Ucraina o sul mostruoso pogrom del 7 ottobre 2023 di Hamas e sul successivo, disumano e inaccettabile, massacro dei palestinesi ostaggio a Gaza».
Umberto Allemandi, classe 1938, è stato, con la sua attività professionale prima da dirigente e poi da editore, uno dei piccoli, ma essenziali, mattoncini su cui si è costruita l’arte del Novecento, la sua realtà e la sua rappresentazione, la commedia umana degli artisti e l’enigma di un mercato che non ha nulla di sicuro, di quantificabile, di misurabile e di ripetibile: «Il mercato dell’arte è un fenomeno divertente e discutibile, molto umano e quindi anche pieno di errori e di trucchetti truffaldini», nota con ironia e distacco.
Siamo in Piazza Carignano, dove si trova il Cambio, il ristorante della borghesia del denaro e del pensiero, degli industriali e degli intellettuali: Torino si è sempre inchinata alla piramide del potere, ma ha sempre avuto una considerazione più alta della cultura rispetto ai soldi, nella gerarchia della città Norberto Bobbio valeva Gianni Agnelli e Giulio Einaudi, se non era al di sopra di Vittorio Valletta, era di sicuro più importante del direttore generale della Fiat Nicolò Gioia.
Il Cambio, dopo un periodo di decadenza coerente con la fine della primazia degli Agnelli sul Paese e con la marginalizzazione della città, è stato rivitalizzato dalla famiglia De Negri (azionista di controllo della Diasorin, biomedicale) ed è stato affidato a Matteo Baronetto. Baronetto – come già fatto a Modena da Massimo Bottura con la Francescana e il raddoppio più rapido e popolare della Franceschetta – conduce, vicino al Cambio, la Farmacia del Cambio. In gennaio il ristorante principale è chiuso. Intorno a noi ragazze dell’università mangiano a pranzo panini e toast, brioches e torte. Noi, invece, guardiamo il menù.
Nel 1983 esce il primo numero del «Giornale dell’Arte». Il giornale di Allemandi ha una formula inedita: notizie, analisi, commenti e inchieste sul mondo dell’arte nella forma del mensile, ma con il linguaggio e lo stile del quotidiano. Il «Giornale dell’Arte» ha generato una serie di edizioni straniere. I libri di Umberto Allemandi editore sono stati, per la qualità del manufatto, un addendum concreto ai grandi autori, italiani e internazionali, che scrivevano i testi e le cui opere venivano riprodotte su quelle pagine graficamente molto ricercate e chiaramente identificabili. Tutti e due scegliamo un antipasto misto: vitello tonnato, carne cruda con scaglie di grana, tigella e prosciutto crudo, robiola e miele di acacia. Entrambi apparteniamo alla informale confraternita del Nebbiolo, per cui chiediamo un bicchiere di Langhe di Bruno Rocca.
La vocazione da editore ha rappresentato l’evoluzione adulta di un desiderio infantile e adolescenziale: «La mia famiglia, durante la guerra, si trasferì da Torino ad Asti. Al liceo classico Alfieri avevo fondato il mio primo giornale. Si chiamava “Controfigura”. Facevo parte dell’Azione Cattolica. L’Azione Cattolica di Asti, Alessandria e Torino era zeppa di talenti che, poi, avrebbero preso altre strade. Gianni Vattimo, da Torino, e Umberto Eco, da Alessandria, scrivevano su “Controfigura”. Con Paolo Conte, compagno di liceo, passavamo i pomeriggi ad ascoltare i dischi di jazz di mio zio Costanzo con etichette nazionalizzate come Le tristezze di San Luigi invece di St. Louis Blues o l’Infermeria di San Giacomo invece di St. James Infirmary. Paolo aveva fondato la Original Barrelhouse Jazz Band. Lui suonava il trombone a coulisse e strimpellava il piano con tre dita. Io facevo giornalini: eravamo tutti autodidatti. Eravamo tutti empirici. Improvvisatori nella musica, nella letteratura, nell’arte, nei flirt».
Empirici e autodidatti. Come lo si è in ogni occasione, nella vita. L’antipasto misto è notevole, ma è composto da micro porzioni. In particolare, la robiola al miele d’acacia è buonissima. Ne chiediamo dell’altro, perché va bene la raffinatezza della misura, ma in cucina non è proprio vero che «less is more».
Il ritorno a Torino, nel secondo Dopoguerra, fa conoscere ad Allemandi una città dura, avventurosa e a suo modo divertente, come impara alla scuola scanzonata e calvinista di Armando Testa, di cui diventa copywriter: «Feci lo slogan per la campagna pubblicitaria del Caffè Paulista, primo caffè sottovuoto dei Lavazza. In spagnolo anziché in portoghese perché avevo nostalgia della mia fidanzatina spagnola che sarebbe divenuta la mia prima moglie, madre dei miei figli Alessandro e Beatrice. Per la Simmenthal proposi “Il piacere della carne”, ma era troppo presto». E continua: «Alberto Bolaffi per primo comprese il nuovo business del collezionismo d’arte e scelse di unire ai francobolli, per i quali già si facevano i cataloghi, la pittura e la scultura, lo yachting e i vini, e mi affidò la sua casa editrice. I suoi cataloghi sono stati fondamentali per iniziare a costruire un meccanismo minimamente credibile nel problema del valore delle opere e della veridicità dei prezzi. Ho sempre mantenuto scetticismo verso il mercato dell’arte: non è un mercato vero, come quello delle merci e delle azioni. Ma, davvero, il lavoro fatto con cura e precisione in quegli anni è stato fondamentale per tutto quello che è successo dopo fra Torino, Milano, Londra, Parigi e New York. A Torino, oltre alla famiglia Agnelli, tanti borghesi dell’industria e delle professioni acquistavano opere d’arte. E si muoveva un mercante come Gian Enzo Sperone che ha contato in Italia e in Europa quanto Leo Castelli e Ileana Sonnabend negli Stati Uniti e nel mondo. Ho sempre osservato la regola assoluta di non mescolare nessun commercio personale nel mio lavoro, come facevano in tanti. Questo spiega in parte perché non sono collezionista: non avrei avuto il denaro sufficiente per acquistare il Picasso, il de Chirico e il Giacometti della qualità che avrei desiderato. Da manager della Giulio Bolaffi Editore e poi della Giorgio Mondadori, ho detto tre no: a Mauro Spagnol che mi voleva al suo posto per dirigere i libri Rizzoli, ad Angelo Rizzoli che aveva acquisito il “Corriere della Sera” e mi aveva proposto la guida dei periodici e all’amico Gianluigi Gabetti che mi offriva di fare l’amministratore delegato della Fabbri, di proprietà Ifi, la finanziaria degli Agnelli. In passato avevo rifiutato la stessa proposta per la Seat-Pagine gialle, un’editoria sicuramente redditizia, ma che trovavo troppo poco editoriale. E c’era anche stato un seducente momento di reciproca attrazione con “Il Sole 24 Ore”».
In tavola vengono serviti a entrambi agnolotti di carne con sugo d’arrosto. Sono molto buoni. E la cadenza del loro gusto è perfetta con il nebbiolo di Rocca. Il nome Agnelli è una chiave che apre la porta del Novecento italiano e internazionale, nel quale il potere e il denaro, l’influenza e la cultura erano elementi compattamente amalgamati: «L’Avvocato era un conversatore affascinante. Aveva il dono della stoccata fulminante, distruttiva. Se era buono? Chissà che cosa vuol dire essere buoni. Armando Testa una sera mi sorprese dicendomi che la virtù migliore di un uomo non era la creatività che lui adorava, ma era la bontà. La bontà è una virtù nascosta, pudica. L’ Avvocato era curiosissimo e non sopportava annoiarsi. Gli piaceva l’arte e ha comprato opere molto belle. Alle cene mi mettevano sempre seduto al suo fianco perché pensavano che con me non si sarebbe annoiato. Mi tempestava di domande, ma ne sapeva di più lui».
Oggi Umberto ha la tranquillità di chi ha sistemato le sue cose. La Allemandi è diventata proprietà di Intesa Sanpaolo, della Fondazione 1563 (ente della Compagnia di San Paolo) e della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo. La casa editrice ha raggiunto un equilibrio finanziario. E ha un azionariato in cui, anche, il fondatore si riconosce: «L’offerta del finanziere di Hong-Kong Calvin Choi, attuale proprietario di “The Art Newspaper” da me fondato a Londra e New York e di “L’Officiel” nella moda, era migliore. Ma non ho avuto dubbi. Dando maggiore attenzione al profitto anziché al prodotto, avrei potuto disporre delle risorse finanziarie e umane necessarie per sviluppare le espansioni in Italia e in Europa che avevamo predisposto, oltre le edizioni straniere del Giornale dell’Arte. Comunque, va bene così», dice con una forma di serena malinconia.
Intanto, in tavola arriva un fantastico piatto di mini pasticcini, una serie di prodotti classici della Farmacia del Cambio, con la rivisitazione di Baronetto: un bonet piccino con amaretto e cioccolato, un gianduiotto mignon con la mousse alla nocciola, della mousse al gianduia, la madeleine con la crema Cavour al suo interno, il profiterole alla crema chantilly e una tortina 1757 con il caramello salato. Sì, signor Umberto, già ragazzo amante del jazz e poi editore per una vita: va bene così.