Antonio Tajani
Roma
Questa mattina, a 24 ore dal cessate il fuoco, il ministro degli Esteri Antonio Tajani volerà in Israele per poi fare tappa in Palestina. Incontrerà il suo omologo Gideon Sa’ar, il presidente israeliano Isaac Herzog, e si confronterà con il primo ministro e ministro degli Esteri palestinese, Mohammed Mustafa, per «incoraggiarli e sostenerli, perché oggi la tregua è ancora fragile». E in questa fragilità emerge il timore che «i nemici della pace, contrari a una stabilizzazione, compiano delle provocazioni, e che Hamas rompa l’accordo», ragiona Tajani, così come si guarda con apprensione, dall’altra parte, alle possibili reazioni muscolari di Israele, «sempre pronto a difendere il proprio territorio». Ma c’è anche spazio per la speranza: «Siamo all’alba di una possibile pace che potrebbe coinvolgere l’intera regione».
Quale proposta arriverà dal governo italiano?
«Ora inizia un lavoro diplomatico lungo e complesso per rafforzare la tregua. Le prossime sei settimane saranno la chiave per porre le basi del passaggio dalla prima alla seconda fase del cessate il fuoco. La liberazione delle prime tre giovani donne israeliane è positiva, ma ora deve proseguire la liberazione degli ostaggi israeliani e, contestualmente, si devono far arrivare aiuti alla popolazione palestinese».
E una volta stabilizzata la tregua?
«Si potrà ridare slancio agli Accordi di Abramo, con cui si volevano normalizzare i rapporti dei Paesi arabi con Israele. Quel percorso era quasi concluso, ma si è interrotto con l’attacco del 7 ottobre. Adesso si devono riannodare i fili».
Ci sono le condizioni per riconoscere lo stato di Palestina?
«Prima è necessario riunificarla».
I coloni israeliani devono quindi abbandonare le terre occupate?
«Credo che debbano fare qualche passo indietro, ci sono state troppe violenze e sono causa di instabilità».
L’Onu può avere un ruolo in questa fase?
«Credo sarebbe una buona idea avere una missione di interposizione promossa da un ente internazionale come l’Onu. Purché sia a guida araba. Può aiutare a consolidare la pace e a rafforzare l’Autorità palestinese».
E l’Italia prenderebbe parte alla missione?
«Siamo ancora in una fase embrionale, ma saremmo pronti a partecipare con un contingente. Serve, più in generale, una presenza europea in Medio Oriente. E in Palestina l’Europa potrà avere un ruolo, se c’è un accordo gradito a entrambe le parti».
L’Italia ha l’obiettivo di riconoscere la Palestina?
«Sì, la nostra strada porta lì, ma ci vuole tempo perché la Palestina deve essere riconosciuta anche da Israele e a sua volta deve riconoscere Israele. Le iniziative unilaterali che ho visto finora da parte di alcuni Paesi non servono alla Palestina né alla pace».
C’è anche il Libano, che ora attraversa una nuova fase. L’Italia si candida a guidare la missione Unifil?
«Abbiamo proposto il generale Diodato Abagnara. Un ufficiale di altissimo livello e se ne è già parlato con le autorità israeliana e libanese. Da parte loro mi sembra ci sia gradimento. In Libano, e forse anche in Siria, mi sembra sia stata imboccata la strada giusta per una stabilizzazione dell’area, che è un altro obiettivo primario per gli interessi commerciali di una nazione come la nostra, vocata alla manifattura e all’export».
Resta, per l’Europa, il fronte aperto in Ucraina. Lei è tra quelli che sperano in Donald Trump per una chiusura rapida e positiva del conflitto?
«Trump lavorerà per costruire la pace, ma il problema non si risolve da un giorno all’altro, tanto è vero che ha ribadito il sostegno Usa a Kiev. Sono però convinto che questo sia l’anno buono per arrivare a un cessate il fuoco anche in Ucraina».
Oggi a Washington, alla cerimonia di insediamento di Trump, ci sarà Giorgia Meloni e, come lei, varie delegazioni dell’estrema destra europea, sovranista e nazionalista. Ursula von der Leyen, invece, non è stata invitata. È un segnale che dovrebbe preoccupare l’Ue?
«Quelle delegazioni andranno, come è normale che sia, e l’assenza di von der Leyen è una questione di cerimoniale, non esasperiamo i fatti. L’Europa e gli Stati Uniti sono due facce della stessa medaglia, l’Occidente, e sono inscindibili. Gli Usa sanno che devono interfacciarsi con l’Ue ed è una consapevolezza reciproca, chiunque sieda alla Casa Bianca».
L’Europa non ha nulla da temere quindi da Trump?
«L’Europa deve proseguire sulla sua strada e accelerare su tanti temi, come la Difesa comune, l’unione bancaria, l’armonizzazione fiscale. Lo dicevamo con Biden e lo ripeteremo con Trump».
A Washington ci saranno tutti i partiti di destra “preferiti” di Elon Musk. Lei che idea si è fatto del miliardario e braccio destro di Trump?
«Non mi sta simpatico né antipatico. Per ora è solo un imprenditore e quindi, come soggetto privato, è normale che pensi ai suoi affari».
Anche se i suoi affari sono con governi come quello italiano, per il sistema di satelliti Starlink?
«È una questione di mercato, sono molto laico su questo. Si deve garantire la sicurezza dei dati italiani, ovviamente. E se quel sistema di trasmissione è utile e sicuro, perché l’Italia non dovrebbe prenderlo in considerazione? Questo è il tema. Degli aspetti tecnici, poi, se ne devono occupare gli esperti».
Dare in mano a un privato il sistema di comunicazioni può essere pericoloso. Musk decise di spegnere i satelliti usati dall’Ucraina, quando Kiev voleva attaccare la Russia.
«Se si fa un contratto ci sono delle clausole. Io sono pragmatico. Musk non deve fare il ministro in Italia, fa l’imprenditore e se può dare servizi utili all’Italia, se ne può discutere».
Al ritorno dagli Usa, Meloni dovrà risolvere la grana del rinvio a giudizio della ministra Santanchè. Se tradisse l’anima garantista del centrodestra facendola dimettere sarebbe un problema?
«Noi siamo responsabili delle nostre posizioni. Per FI è innocente fino al terzo grado di giudizio, ma dovrà decidere Meloni su Santanchè. Non dipende da noi».