I disegni (criptici) di Trump
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Improvvisamente, sembra che la partita si giochi tutta in una sola metà del campo, quella della destra. Smarrita e non solo battuta, la sinistra assiste all’avvento dell’era trumpiana dagli spalti, come se fosse fuori dal gioco, vittima e spettatrice. È la prima volta nel dopoguerra che fatica a trovare uno spazio — sia pure minoritario — nel teatro politico in cui siamo appena entrati, a reinventare come sempre la ragione della sua presenza nella società, a dare un nuovo significato alla sua lunga lotta per la giustizia, l’emancipazione e i diritti. Come se non fosse più un elemento costitutivo e necessario di quel nuovo mondo che concepisce se stesso come il prodotto di un big bang capace di ridurre il Novecento in cenere, con tutte le sue creature inadatte a sopravvivere nell’atmosfera 2.0, arricchita per gli organismi forti, vincenti e dominanti, signori dell’epoca.
In realtà questa afasia che costringe in Occidente la sinistra a giocare in difesa, per contrastare il furore della destra nella trasformazione ideologica della realtà, ha una causa ben precisa: un nuovo vocabolario battezza il mondo, interpreta i fenomeni e dà un nome alle cose. Noi vediamo i risultati di questa rivoluzione della storia, con l’estremismo di destra premiato nel voto di qua e di là dell’Atlantico, il post-fascismo e il neonazismo che diventano un bene rifugio in Europa, la reazione che si fa governo, in un brutalismo ormai ostentato e ovunque applaudito. Ma non ci accorgiamo che prima, la politica e la cultura hanno fatto un patto egemonico, operando uno scambio.
Il trumpismo agisce come forza di sfondamento, disarticola l’universo del politicamente corretto, assicura una rappresentanza ai nuovi esclusi del ceto medio proletarizzato, crea una classe desiderante e impaziente, che pretende di essere risarcita singolarmente nella frustrazione degli individui, misconosciuti dal sistema. Il leader è scelto appunto perché si pone fuori da quel sistema, in una terra di nessuno dove tutto è possibile in quanto non valgono più regole, convenzioni e inibizioni, ogni atto è fondativo di un nuovo ordine, anzi il grande disordine dell’assalto eversivo al Campidoglio è il vero trailer della nuova avventura, il suo orizzonte minaccioso, la sua riserva antidemocratica.
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Queste condizioni eccezionali che non si verificavano da decenni, rompendo la cornice di garanzia che la democrazia liberale aveva costruito intorno a se stessa hanno trasformato il territorio della politica, delle istituzioni e del governo in una terra vergine, un pianeta da raggiungere, una nuova frontiera da colonizzare. I padroni del nuovo, stregoni dell’innovazione, sperimentatori del futurismo tecnologico, si sono sentiti interpellati e convocati: immediatamente arruolati, sono i moderni pionieri, gli ultimi esploratori. È il momento per loro di trasformare la potenza in potere, la scienza in politica, l’innovazione in comando, sfruttando la caduta di ogni barriera tra gli interessi, che possono infine cumularsi con profitto invece di disciplinarsi distinguendosi. Non c’è più limite perché è saltato il vecchio pudore gerarchico che regolava lo sviluppo inseguendo il bene comune. La sproporzione è la cifra del successo, il disequilibrio diventa carismatico, la tecnica è la nuova fonte di autorità. Una diversa legittimità si sta instaurando, una costituzione materiale empirica si è già insediata, forgiata dalla realtà: come può la vecchia superficie novecentesca della democrazia governare questo tumulto e reggere l’urto della ribellione delle élite?
Ecco perché, quasi inevitabilmente, la super-classe dei big tech si unisce alla destra politica estrema nel tentativo congiunto di superare la democrazia liberale. Sono movimenti distinti ma complementari e per il momento utili l’uno all’altro, seguendo l’istinto di classe che li accomuna. Il trumpismo ha aperto un varco nel sistema con il consenso politico trasformato in forza d’urto continua; da quel varco gli innovatori-conquistatori sono penetrati nel meccanismo di governo e lo stanno testando, diventando padroni non solo della tecno-finanza, ma della tecno-politica. È una sorta di Quinto Stato che si è messo in cammino, la versione ribaltata e digitale della marcia di Pelizza da Volpedo. Lo scambio è in atto: Trump annuncia il nuovo mondo con la sua energia demolitrice, Musk e i suoi fratelli archiviano il vecchio mondo con il loro potere di definizione, la capacità e l’autorità di classificare e distinguere, decidendo cosa merita di traghettare sulla sponda del futuro e cosa invece deve scomparire.
Questo stato di cose significa una cosa sola, che tiene insieme tutto, spiegandolo: è in atto un vero e proprio cambio di egemonia culturale, che si sta compiendo a cielo aperto, davanti a noi. Dopo decenni di minorità e frustrazione, la radicalità di destra ibridata dal tecno-futurismo oggi tiene in mano il vocabolario del futuro, aperto alla pagina consumata e grandiosa della democrazia. Ecco perché la sinistra non può più accontentarsi di giocare di rimbalzo, soltanto denunciando gli strappi al buonsenso democratico, ma deve portare la sfida al cuore culturale del sistema, da cui discendono le scelte politiche. Ciò vuol dire non solo tutelare il presente, ma immaginare il futuro: ci sarà pure un modo di stare nel “nuovo” salvando le ragioni di una storia di popolo e di Paese, e rinnovando il patto di libertà della nostra civiltà democratica.