
Two mystery figures discovered beneath Picasso Blue Period painting
23 Febbraio 2025
«Un evento domina la mia vita: il mio cuore si commosse e credetti»
23 Febbraio 2025di Annachiara Sacchi
Infinita, perché causa ed effetto si rincorrono senza sosta. Incompiuta, perché «i miei lavori continuano a cambiare nella mia testa, per me non c’è fine». In questi due aggettivi Robert Wilson — regista, drammaturgo, scultore, pittore, ma si possono aggiungere altre voci a un curriculum blasonatissimo — racchiude la sua poetica: infinita e incompiuta. Come la Pietà Rondanini, che Wilson metterà «in scena» durante il Salone del Mobile . Glielo ha chiesto la fiera del design: un dialogo di luci e musica con il capolavoro di Michelangelo. Un’installazione inedita. Da offrire alla città, dentro i confini della città. Un’occasione per «pensare e sognare». Per trovare uno spazio «altro». Da vivere accanto ai mille appuntamenti che affollano — e rendono vivo — l’evento più atteso di primavera. «Ci sto ancora lavorando», dice Wilson. Ovviamente.
Proiezioni, effetti luminosi, musica. All’Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco di Milano, dal 6 aprile al 18 maggio andrà in scena Robert Wilson. Mother, e cioè una «visione» del capolavoro incompiuto di Michelangelo commissionata a Wilson dal Salone come evento culturale per celebrare con l’arte la settimana del design. La Pietà sarà «rappresentata» grazie a una serie di immagini (volti, corpi, nuvole, abbracci fluttueranno sulle pareti, sul pavimento, sul marmo), in dialogo con lo Stabat Mater di Arvo Pärt in una sequenza di luci e note della durata di mezz’ora (il pubblico potrà assistere con ingresso su prenotazione; l’esecuzione dello Stabat Mater, dal vivo dal 6 al 13 aprile, è affidata all’ensemble Vox Clamantis diretto da Jaan-Eick Tulve, e a La Risonanza, diretta Fabio Bonizzoni; ingresso gratuito il 6 aprile; lunedì 7 chiuso come tutti i lunedì; gli altri giorni euro 5). Il significato di tutto questo? La risposta è in queste pagine e diventa una sorta di manifesto «wilsoniano»: «Mother è qualcosa che vedi e ascolti. Cercare a tutti i costi il senso è riduttivo. Prendiamo Shakespeare: è assurdo volerlo interpretare. Quello che importa è l’esperienza, diversa per ciascuno, perché sperimentare la grandezza dell’arte è un’attività personale. Non voglio dare riposte. Per me Mother, il mio teatro, la mia arte sono un processo non intellettuale, ma esperienziale».
Michelangelo lavorò alla Pietà Rondanini dal 1552 fino a sei giorni prima di morire, il 18 febbraio 1564; grazie a una colletta dei milanesi, dal 1952 l’opera è patrimonio della metropoli ambrosiana. «Il capolavoro del Buonarroti — rivela Wilson — muove in me molte cose. Ha a che fare con mia madre, con tutte le madri. È un mito universale con cui gli artisti si sono sempre confrontati, in musica, su tela, su pietra. Quando l’ho vista per la prima volta sono rimasto lì davanti per più di un’ora. Poi ho iniziato a camminarle intorno. Ho percepito un’energia, una presenza quasi mistica. È come una finestra sospesa tra il visibile e l’invisibile. Mi ha regalato un tempo diverso. L’idea di metterla in scena mi ha colpito profondamente, anche se alla Pietà non serve una scenografia. Ha solo bisogno di uno spazio, di un respiro, perché chi la osserva possa perdersi nei propri pensieri. E allora ho pensato ad Arvo Pärt. C’è qualcosa in comune tra la sua musica e questa scultura: un senso del tempo che si dilata. Insieme, arte e musica non spiegano: semplicemente, ci permettono di provare emozioni».
È inutile insistere sulle intenzioni. I riferimenti di Wilson sono tanti, il denominatore è unico. «Quando ero uno studente ho avuto l’occasione di incontrare il pittore Mark Rothko, noi ragazzi gli chiedemmo il significato dei suoi quadri, a cosa pensava mentre dipingeva. Lui disse: “Penso a tutto, all’amore, alla morte, a molte cose…”». Balzo indietro, riecco Shakespeare: «Puoi leggere Amleto in una notte e la notte dopo trovarlo completamente diverso. Non scriveva per essere capito, ma per offrire qualcosa su cui riflettere». Un ricordo di vita: «Paul Thek , artista e mio amico, si trovò nella stessa galleria d’arte con Susan Sontag che stava cercando di spiegare un’opera. Lui disse: “Fermati. Basta interpretare”. Fu, confessò lei, come ricevere una martellata in testa. Da quel “colpo” nacque il suo famoso saggio Contro l’intepretazione, del 1966». Si va indietro a Mozart: «Mi piace come suonano le sue note. Il mio non è un ascolto intellettuale, quello che importa è la mia esperienza». E di nuovo avanti: «Un critico chiese a Gertrude Stein che cosa pensasse dell’arte moderna. Lei rispose: “Mi piacerebbe guardarla”. Poi: miss Stein, cosa pensa di fare dopo? “Penso che prenderò un bicchiere d’acqua”». Wilson sorride compiaciuto. Il messaggio è molto chiaro.
Quanto alle proiezioni che si vedranno intorno, sopra, sotto la Pietà, il regista spiega: «La luce è ciò che dà forma allo spazio. Einstein diceva che la luce è la misura di tutte le cose. Per me è il punto di partenza. Non è solo un elemento tecnico, è una presenza viva. Non è un dettaglio da aggiungere dopo, è l’inizio di tutto».
Luce e musica al Castello Sforzesco per creare un ambiente che invita alla riflessione interiore, «in libertà». Ma c’è un terzo elemento che diventa fondamentale nell’opera di Wilson: il tempo. «Per pensare, per sognare». Il regista si guarda intorno, dalla hall di un hotel milanese osserva il traffico, i passanti che camminano a passo sostenuto: «Veniamo da queste strade frenetiche, dobbiamo trovare spazi per andare via da tutto questo, per trovare un tempo più naturale, quello delle nuvole, degli alberi». Allora Mother è un posto del genere? «Non c’è messaggio. E ce ne sono tanti. Non voglio e non posso dirvi cosa pensare. Ho lavorato per cinquanta e passa anni nei teatri, e non ho mai detto a nessun attore, tantomeno a uno spettatore, che cosa sentire. Posso dare direzioni sulla luce, sulle coreografie, sugli aspetti formali, ma qui mi fermo».
Anche per Mother, progetto curato da Franco Laera, durante i due workshop che si sono tenuti l’11 e 12 novembre e il 10 e 11 febbraio, Wilson ha seguito questo schema: «Non c’è niente di studiato a tavolino». Ed è strano sentirlo dire da una leggenda (ha vinto, tra i vari, due premi Ubu e il Laurence Olivier) del teatro, luogo dove tutto deve funzionare perfettamente. «Io vengo da una città conservatrice del Texas, dove non c’erano teatri e, figuriamoci, artisti. Ventenne a New York andai a Broadway e non mi piacque. Come l’opera, del resto. Ma vidi danzare George Balanchine e fui rapito dalla sua danza fatta di spazio e tempo. Le idee dei registi erano troppo complicate, volevo avere le mie di idee, le mie esperienze. Mi dissi allora che dovevo creare uno spazio in cui fare un’esperienza. Questo cerco ancora oggi di fare». Si schermisce: «Io sono superficiale, sono americano». Wilson prende un foglio e una penna, scrive la C di causa (cause) e la E di effetto (effect). Le circoscrive dentro il simbolo dell’infinito (come si vede nella pagina a fianco): «Puoi partire dalla causa e avere un effetto oppure ragionare sull’effetto e trovare la causa». Che poi infinito e incompiuto si toccano, spesso si equivalgono. «Balanchine continuava a lavorare sui suoi spettacoli. Come me. Tutti i grandi lavori non sono mai finiti, continuano a cambiare, sono incompiuti. Anche il mio Amleto di trent’anni fa… Continuo a pensarci, nella mia testa non è finito». E in questo ciclico, perenne movimento (artistico), Wilson avverte: «La magia sta nella superficie, che deve essere accessibile. Cos’è Re Lear? È un re che divide il suo regno, impazzisce e muore. È una storia molto semplice. Come semplice, anzi stupida, è quella di Madama Butterfly: un ragazzo corteggia una ragazza, lei si innamora, lui la lascia, lei si dispera e muore. Facile no? La storia deve essere accessibile all’uomo della strada, deve porre domande senza pretendere di dare risposte. È il motivo per cui facciamo gli artisti».
Non è la prima volta che Wilson collabora con il Salone del Mobile. Il suo «esordio» per la Fiera milanese risale al Duemila con l’installazione Rooms and Secrets alla Rotonda di via Besana, poi arrivarono Imagining Prometheus nel 2003 a Palazzo della Ragione, e nel 2010 Tutti a tavola alla Galleria d’arte Moderna e Perchance to dream con Roberto Bolle a New York. Per questa 63ª edizione del Salone, oltre a Mother Wilson curerà la serata di apertura dell’evento al Teatro alla Scala, il 7 aprile, con The Night Before. Object Chairs Opera, viaggio in alcuni dei più celebri brani delle opere che lo hanno visto alla regia. A eseguirli sarà l’Orchestra del Teatro alla Scala, diretta da Michele Spotti, con la partecipazione del soprano Marina Rebeka. In scena, una selezione di oggetti e sedute provenienti da allestimenti storici di Wilson. «Amo lavorare con il Salone», dice. Soprattutto quando si tratta di giovani designer, quelli del Salone Satellite che Wilson incontrerà il 10 aprile in Fiera. «Mi piace Marva Griffin (fondatrice del Satellite, ndr) e mi piacciono i nuovi talenti. Sono sempre grato ai festival, e per me il Salone del Mobile è un festival, perché ci fa capire che cosa succede nel mondo prendendosi il rischio di dare spazio agli sconosciuti, proprio come fece con me il festival di Nancy. È questione di equilibrio e Milano conosce la formula: mantenere il legame con il passato pensando al futuro».