l’intervista. Luca Ricolfi
Sfida tra Elly e Giorgia. Lo stress test del Pd
di Federico Capurso
Prima di posare lo sguardo sullo sforzo che l’Europa sta mettendo in atto per il riarmo, il sociologo Luca Ricolfi desidera fare una premessa: «Non sono un esperto di questioni militari, ma conosco la teoria dei giochi. E, dal punto di vista della teoria dei giochi, formulare una scelta razionale è impossibile, perché nessuno possiede le informazioni cruciali per farlo. Mi stupisce la sicurezza con cui tanti politici e analisti prendono posizione, come se avessero in mano tutti gli elementi per decidere». C’è però una considerazione che più delle altre può essere azzardata: «Il piano ReArm Europe non modificherà di una virgola il potenziale di difesa militare dell’Europa. In compenso, ha buone possibilità di ostacolarne l’azione diplomatica. E certamente brucia ogni velleità di sedersi al tavolo della pace».
L’Unione europea proporrà acquisti congiunti di armi da parte degli Stati membri. Non è un modo pragmatico per favorire una maggiore integrazione verso una Difesa comune?
«Lo sarebbe se gli Stati europei fossero effettivamente intenzionati a cedere sovranità, cosa su cui ho enormi dubbi. Come si fa a pensare che Stati che da decenni non riescono a mettersi d’accordo neppure sulla gestione dei flussi migratori, siano pronti a conferire potere necessariamente enorme a un organismo di difesa sovranazionale? Basterà la paura della Russia? ».
La conseguenza?
«Il mio timore è che avremo il danno e la beffa: un drammatico aumento del debito, senza un significativo rafforzamento militare. Ma può darsi che mi sbagli. Anzi, spero di sbagliarmi e di molto».
Se questa impostazione europea è sbagliata, condivide le ragioni della piazza per l’Europa?
«La piazza non ha ragioni, ma sentimenti. Sentimenti di paura e di timida speranza. Quanto alle ragioni, sono opposte e confliggenti, perché opposte e confliggenti sono le idee di Europa. In molti sogniamo gli Stati Uniti d’Europa, ma – per dirla con Robert Kagan – alcuni hanno in mente Venere, altri hanno in mente Marte».
I pacifisti italiani richiamano alla memoria l’europeismo di De Gasperi e Spinelli in chiave anti-riarmo.
«Quasi nessuno ha letto il Manifesto di Ventotene di Spinelli. Se i pacifisti l’avessero letto e studiato attentamente, scoprirebbero che era un progetto profondamente anti-democratico, con una visione giacobina dei rapporti fra élite e popolo. Una visione elitaria che, da certi punti di vista, non è affatto stata tradita dalle classi dirigenti, che hanno messo in piedi un’Europa in cui elettori e Parlamento contano pochissimo».
A quella piazza aderisce anche il Pd. I Dem sono la ricerca di un popolo?
«L’idea della manifestazione viene dall’élite intellettuale, i partiti progressisti tentano di cavalcarla, l’establishment proverà a leggerla come sostegno al riarmo».
Intanto a Bruxelles i Dem si dividono sul piano di riarmo. In molti non digeriscono la posizione di astensione chiesta dalla segretaria Elly Schlein.
«Non mi piace, ma la capisco: non vi è alcuna garanzia che il riarmo sia propedeutico alla costruzione di un esercito comune europeo. In un certo senso è stata una fortuna, per i progressisti, che non fosse sul tavolo alcun vero progetto di “Difesa comune”, concreto ed immediato. Se vi fosse stato, i mal di pancia sarebbero stati molto maggiori, con i Cinque Stelle contrari anche a quello, e il Pd incertissimo sul da farsi».
Cosa rischia il Pd in questo stress test?
«Da una parte, di sgretolare il patrimonio di affidabilità che ha il partito in Europa e dall’altra di dare il monopolio della protesta a Giuseppe Conte, che offre in piazza parole d’ordine più chiare. Ma già ora Meloni è considerata più affidabile di Schlein e la partita è persa anche in una competizione con Conte sul pacifismo».
Nel Pd inizia a sentirsi, di nuovo, la parola “congresso”. Avrebbe senso?
«Certo, se si vuole avere una linea politica più definita. Meglio un congresso che restare a bagnomaria, ma non mi sembra ci sia un’alternativa organizzata e una classe dirigente in grado di animare un vero congresso».
Fuori dalle Ztl, il popolo a cui parla il Pd è contrario alla guerra, perché la guerra costa e impatta sul carovita, o si schiera con l’Ucraina e chiede sicurezza?
«Penso ci sia un po’di tutto, ma che l’ingrediente dominante – oggi come ieri – sia il pacifismo, che è un mix di idealismo, del tipo “vogliamo la pace nel mondo”, e di egoismo, perché “non vogliamo fare sacrifici”».
Meloni è arrivata al potere intercettando la rabbia popolare e ora accetta i vincoli del governo, in Europa e sull’Ucraina. Come spiega la sua tenuta in termini di consenso?
«La gente sta con Giorgia Meloni per tanti motivi. Credo che il più importante sia che il suo governo ha preso sul serio i problemi della sicurezza e dell’immigrazione. Poi c’è il fatto che i conflitti interni alla maggioranza si risolvono sempre, senza trascinarsi nel tempo e mettere a rischio la tenuta del governo; il fatto che la politica economica è pro-ceti popolari; il fatto che l’occupazione cresce. Per non parlare dei successi in politica estera, che anche l’opposizione è costretta a riconoscere. E infine, naturalmente, c’è il fattore Elly: pochi la credono in grado di guidare un governo, ma molti temono una stagione di litigi con Conte e Renzi».