Giorgio Paolucci martedì 18 marzo 2025

Il cammino di Domenico Pace, all’ergastolo per l’assassinio del magistrato. «Sento la sua presenza, mi incoraggia a diventare migliore. Il mio cuore fatica a credere che sarò perdonato, chissà»

Il ritrovamento del corpo di Livatino

Il ritrovamento del corpo di Livatino – .

L’appuntamento è fissato nella cappella della casa di reclusione di Sulmona, dove vivono 450 persone detenute in regime di alta sicurezza. È qui che incontro Domenico Pace, uno dei componenti del commando mafioso che il 21 settembre 1990 ha ucciso il giudice Rosario Livatino, 38 anni, magistrato del Tribunale di Agrigento, proclamato beato da Papa Francesco nel 2021. Ammazzato “in odium fidei”: l’avversione mafiosa riguardava l’esercizio della giustizia da parte di Livatino collegato alla pratica della fede cristiana. I capi della Stidda (l’organizzazione rivale di Cosa Nostra) che avevano commissionato l’omicidio lo definivano un “santocchio”, un “personaggio che va in chiesa a pregare” e lo insultavano proprio perché ne odiavano la pratica religiosa e la fede. Il magistrato aveva 38 anni all’epoca dei fatti, Pace ne aveva 23. Condannato all’ergastolo, è in carcere dal 1990. Ha accettato di parlare del percorso intrapreso durante la detenzione: lo fa con un certo pudore, è visibilmente teso, la voce a tratti diventa flebile e s’incrina per la commozione.

I primi 14 anni di carcere li ha trascorsi in regime di 41bis: «Un’esistenza blindata, giornate senza storia, tanti divieti, nessuna attività, nessun pensiero positivo. Rapporti tesi con gli agenti di polizia penitenziaria, contestazioni, provvedimenti disciplinari. Un colloquio al mese, mia madre piangeva dietro il vetro perché non poteva neppure stringermi le mani, quando rientravo in cella mi sentivo all’inferno. Cosa mi ha salvato in quel periodo? L’innato spirito di sopravvivenza che ogni uomo possiede. Non volevo soccombere, non riconoscevo la mia colpa, vivevo chiuso in me stesso di fronte a una situazione senza via di uscita. Carcere a vita, morte in vita. Un giorno viene in cella il magazziniere: “Pace, prepara la tua roba, ti hanno tolto il 41 bis, sei trasferito”. Non ci volevo credere, fino a quando è venuto l’ispettore a dirmelo e mi sono arreso all’evidenza».

 

.

. – Illustrazione di Jeugov

 

Al carcere di Sulmona arriva nel 2006 e inizia un cammino che comprende la progressiva consapevolezza del male procurato e la rivisitazione di un passato costellato di ombre: l’infanzia vissuta alzandosi all’alba per pascolare pecore e capre e vendere il latte nelle strade di Palma di Montechiaro per poi andare a scuola, il ritorno nei campi e di nuovo a casa, il conflitto con il padre e la ribellione per una vita divenuta insopportabile, la frequentazione di cattive compagnie, l’ingresso nel mondo della malavita fino a diventarne succube, i crimini commessi. Il lavoro di revisione critica sulla sua vita è duro, ma nel tempo il muro che si era costruito intorno comincia a sgretolarsi: «Si è aperto un cancello, poi un altro e un altro ancora. Ho accettato di collaborare con gli operatori, ho smesso di lottare contro gli agenti di polizia penitenziaria e ho cominciato a lottare contro le mie resistenze. Ho fatto di tutto per mettermi in gioco: lavorante di sezione, portavitto, corsi di ceramica e di pittura, allevamento delle api, piccole lavorazioni artigianali, il laboratorio teatrale («grande sfida per me che sono sempre stato timidissimo»), la condivisione di progetti di beneficenza con la Caritas». Dopo il diploma di terza media ha frequentato con successo l’istituto di agraria, ora è iscritto al secondo anno del corso di laurea in Scienze e Culture gastronomiche per la sostenibilità nel Polo universitario aperto recentemente nel carcere di Sulmona e frequentato da 41 detenuti, un’altra occasione di riscatto.

 

Il giudice Rosario Livatino

Il giudice Rosario Livatino – .

 

La lunga detenzione – giunta al trentaquattresimo anno – è diventata l’occasione per riscoprire l’intimità di un rapporto con Dio. Pace ricorda in particolare padre Agostino, fino al 2022 cappellano a Sulmona: «Una persona mite e umile che ascoltava sofferenze e sfoghi, davanti al quale potevamo aprire il cuore. Stando al nostro fianco diventava maestro di vita, un vero testimone di ciò in cui diceva di credere. Gli sarò sempre grato, come sono grato a quanti mi hanno accompagnato in questo percorso: gli educatori, i familiari, una donna – vecchia fiamma di gioventù – che si è riaffacciata alla mia vita e mi ha fatto riscoprire la gioia di amare e di essere amato. Ma l’aiuto più importante è venuto e continua a venire dall’uomo che ho ucciso: il giudice Rosario Livatino. Lo avverto presente, ricorre spesso nei miei sogni, mi ammonisce quando sbaglio e mi rincuora nei momenti di sconforto, mi incoraggia a proseguire sulla strada che ho intrapreso, a coltivare la speranza, a diventare un uomo migliore. L’esistenza lentamente ha cominciato a rifiorire. Lo so, sembra un paradosso, ma il cambiamento che sta avvenendo nella mia vita è legato al rapporto che sento di avere con lui. Prima di Natale è venuto a trovarci in carcere padre Mauro Lepori, l’abate generale dei cistercensi: ha detto che tutti noi siamo amati da Dio più di quanto sbagliamo, che per chi ha sbagliato c’è la possibilità del perdono, che le nostre colpe non sono un ostacolo alla misericordia divina. Ho chiesto pubblicamente perdono per gli orrori compiuti, ma ancora non riesco ad accettare che io possa essere perdonato: il male che ho fatto pesa come un macigno. Non so, non so… questo ultimo cancello nel mio cuore rimane ancora chiuso…».

Due anni fa Agnese Moro ha partecipato a un incontro sulla giustizia riparativa nel carcere di Sulmona dialogando con i detenuti, su invito degli operatori nell’ambito del progetto Ri.Me. Abruzzo. «Ci ha detto: voi siete necessari per noi come noi lo siamo per voi. Al momento non avevo colto il senso di quelle parole, poi ho capito che la testimonianza del mio passato così contorto può essere utile alla società, e in particolare ai giovani che vivono in certi contesti, perché non seguano le nostre orme». I giovani: un mondo che gli sta molto a cuore e verso il quale si sente debitore. «Il mio sogno è andare nelle scuole per raccontare la mia storia e metterli in guardia dall’imboccare scorciatoie per risparmiarsi la fatica di una vita onesta. È molto facile cadere nella tentazione di avere tutto e subito, ci sono tanti modi per farlo, ma ho imparato sulla mia pelle che non portano lontano. Sono impressionato dai tanti episodi di bullismo che vengono raccontati sui giornali e in televisione, e dai falsi miti da cui si può venire conquistati. Noi autori di reato possiamo essere testimoni degli errori compiuti e diventare un monito vivente per i giovani, che sono il futuro del nostro Paese».

Oggi Domenico Pace ha 57 anni, scorrendo il film della sua esistenza rivede gli errori che ha commesso e che continuano a pesare sulla sua coscienza. Sa che non può esserci un colpo di spugna che cancella il passato ma riconosce i segni di un cambiamento che sta lentamente portandolo a diventare un uomo diverso da quello che si è macchiato di un crimine orrendo. La vittima di quel crimine, il giudice Livatino, è una presenza silenziosa e operante che vigila sulla sua esistenza, lo accompagna e non lo lascia tranquillo. Nel nostro colloquio ripete più di una volta che non merita il perdono, che «l’ultimo cancello nel mio cuore rimane ancora chiuso, per ora. Ci sto lavorando, chissà…».

Buon lavoro, Domenico Pace.

https://www.avvenire.it/